Alessandro Wm Mavilio

Yume
(Sogni)

Colophon
Alessandro Wm Mavilio
Yume
(Sogni)

2022-VMVXSD-IT
Microbooks
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Crediti Copertina: Javardh

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Sapporo, Japan
Indice
Prefazione
Prefazione
Lo confesso, non credo che questo affare dei sogni abbia dei… limiti. Il solo fatto di sognare equivale a sfiorare le estremità del Significato e quasi provare a contenerlo.

Sognare è certamente uno strumento, ecco cos’è.

Per chiunque intenda la vita come la ricerca di qualcosa, o "un Mistero", o "il percorrere un sentiero", ecco che sognare è come un preciso infilare l’ago in vena. La vita è un sentiero! è una ricerca! e sì che c’è un mistero!

E quando arrivi al cospetto del Mistero, questo è addirittura meglio di quanto immaginassi, di quanto potessi immaginare! E allora evviva il Mistero, perché dà soddisfazioni maggiori di qualunque altra cosa! E non c’è bisogno di andare in India, o di affidarsi a clero e dogmi, non sono queste sagge soluzioni.

Il Mistero esiste, ci precede e ci sopravvive. Ma tu ci riesci? Questo è il punto.

Vi è sì un Mistero, e forse anche “un Segreto”, che riguarda questo pianeta, e di come le cose funzionano qui… E se ti capita di intravedere questo Segreto, sognando o scavando negli strati profondi della tua mente, ecco che ti imbatti in tue vestigia antichissime e personalissime, cose mai viste, passando per i segreti e la vera storia della tua famiglia, e ricordi così che tua Madre è l’origine di tutto e che tuo Padre, brava persona, ti è stato prestato quando eri troppo assente per capire o eccepire, realizzi che, come tutti, hai subito una disgrazia che ha cambiato tutti i giochi, una disgrazia che hai rimosso e che ha sconvolto il tuo corpo, i tuoi sentimenti, il tuo villaggio, il tuo continente, e sei poi stato dato al mondo da orfano, libero sì di vagare verso il futuro ma con nulla in mano che non fossero "strumenti di disgrazia", libero sì di anelare a un mondo perfetto, ricevendo e rifiutando negli anni le visite di emissari religiosi, tutti a dire “condoglianze in ritardo, fa’ così, fa’ colì, indossa questo...”.

Ma non sei a tuo vero agio nella realtà perché semplicemente, come tutti, sei un orfano che per tutto il tempo non ha avuto la serenità di rendersi conto che c’è - effettivamente - questa Presenza precedente, intelligente e vasta, misericordiosa e significativa, che cerca di comunicarsi in tutti i modi attraverso ciò che noi chiamiamo inconscio, filtrando tra tutti i possibili e cucitissimi interstizi, rimasti a sua disposizione.

Ma guardati bene, tu non sei chi credi di essere: sei un soldato stanco e provatissimo, coscritto diecimila anni fa in una faida di villaggio senza senso fattasi guerra senza quartiere e senza nemici. Ma sai anche da sempre cosa è necessario fare: defilarti, disertare, arrenderti - se è il caso - al nemico che non c’è.

Sei a metà del guado. Ma il permesso per fare ciò che va fatto si trova solo all’inizio e alla fine del mondo, due luoghi remotissimi ma sempre di te gravidi.
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
Il sogno di grazia

2020-04-11
Dopo mesi passati nel più doloroso turbamento interiore, stamattina mi sono svegliato come grazie a una carezza: un’enorme mano leggerissima ha tolto via coltri e coltri di zavorra dal mio cuore.

Sognavo qualcosa, all’alba. Sognavo amici e famiglie, uomini, donne e bambini che conosco qui a Sapporo, e allo stesso tempo osservavo, come da estraneo, la mia solitudine, insoddisfazione, incontrollabile rabbia personale degli ultimi tempi. Eppure questi due lati inconciliabili si conciliavano e bilanciavano in sogno, e sperimentavo così una sorta di dimenticato equilibrio, un perfetto equilibrio, direi.

Poi ai miei occhi appariva il simbolo del Tao, molto piccolo e in basso a sinistra del mio campo visivo, quasi come una sovraimpressione televisiva, provvidamente e magicamente spogliato di tutte le sue sovrastrutture storiche e filosofiche. Mi appariva alla stregua di un logo qualunque e lo osservavo con inammissibile indifferenza. E più lo fissavo e più mi sembrava non emanare alcuna carica mistica finché… una sua metà mi è apparsa come il simbolo di una bianca pancia bassa, gravida del suo puntino nero, che irrompe nello spazio del nero più grande, e la protuberanza superiore del nero mi è apparsa come una testa troppo sviluppata, una chiara mia macrocefalia da troppo pensare, con uno sgranato, stupito occhio bianco…


Mi sono visto nel Tao.

Ho ben chiara la banalità di questo messaggio, soprattutto nell’ambito del mio (forse assurdo) rapporto di coppia, ma che grande aiuto! Poi mi è giunto forte e chiaro un messaggio silenzioso e finale, dilatato quanto la storia del mondo, trasmessomi tuttavia in un istante estraneo a ogni lingua umana. Un messaggio che io rilancio così: nessuno scappa alla ottusa, assurda, rotondità del mondo, nessuno lo può fermare: tanto semplice, ma nessuno lo può apprendere e comprendere davvero. Alla fin fine non è forse esso un’enorme giostra?

Il sogno aveva inoltre qualcosa di particolare rispetto ai miei soliti. Era infatti come se portassi avanti più sogni, della stessa fattura e leggiadria, in inaudita contemporanea. Mi sembrava di sognare su un pentagramma, e spesso nel sogno saltavo da una riga all’altra, e ovunque atterrassi, sebbene le storie e i personaggi fossero diversi, il messaggio del sogno non cambiava! Ovunque ricevevo lo stesso messaggio e sperimentavo questa beata riconciliazione con le cose più disparate.

Ho ricevuto diversi insegnamenti da tutte le dimensioni visitate ma purtroppo la beatitudine del risveglio non ha favorito l’immediato download delle informazioni nella dimensione mondana. Ho letteralmente combattuto, per tenere vivo il ricordo delle situazioni sognate, o quantomeno per fissare una traccia. Ma il sogno era appunto multi-traccia e dopo nove ore non ricordo altro che quanto sto scrivendo…
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
La casa

2017-10-15
Scendo da un’automobile e comincio a camminare in una zona suburbana. Mi guardo intorno e vedo Chikako, che in uniforme scolastica, scavalca un alta recinzione metallica per raggiungermi. Avrebbe potuto certamente uscire da un cancello, giacché usciva di casa sua per andare a scuola, ma per qualche motivo il suo comportamento sembrava suggerire un umore… grigio.

Lei comincia a camminare nella stessa mia direzione, probabilmente perché andiamo entrambi verso lo stesso luogo, ma a volte precedendomi, come se andasse di fretta o come per esprimere la sua distanza affettiva, e a volte ritardando il passo, per un motivo forse simile. Chikako sembra avercela con me. Le dico che vorrei baciarla ma lei mi fa capire che quell’opportunità c’è già stata in passato e io me la sono fatta sfuggire. Mi sembra che ci siano attorno a noi anche le due gemelle Shikata e forse Ayaka, della Sandai.

Entriamo a scuola e siamo dentro all’Istituto d’Arte “Palizzi” della mia epoca. Mi sembra che tutto sia ora virato al bianco e nero e c’è davvero tantissima gente, tra studenti, professore e genitori. Probabilmente è uno dei giorni in cui si fanno le iscrizioni. Entriamo in tante stanze, tutte affollate di persone come durante una ricreazione e c’è un gran vociare.

Poi assisto a una specie di proiezione.

Alla fine di questo evento mi trovo in compagnia di amici e conoscenti giapponesi, e tutti siamo per strada, ma in una stradina pedonale di una città che mi sembra antica o che forse è un’isola, tipo Capri o Ischia. Aleggia quella sensazione di provvisoria serenità, leggerezza e riconoscenza che si prova in certi viaggi, specialmente all’estero, quando i viaggiatori hanno l’ulteriore possibilità di allentare la pressione culturale costante che subiscono nel proprio Paese.

Saluto i miei amici e mi infilo in un portone ma mi trovo in un vecchio palazzo sconosciuto e semidistrutto. Percorro brevemente un corridoio polveroso e disastrato e sulla mia sinistra vengo attratto da una luce. C’è un’apertura nel muro e non saprei dire se fosse originariamente una finestra o ciò che resta di una successiva distruzione.

Questa apertura dà su una stanza quadrata dal soffitto molto alto e il mio punto di vista è anche abbastanza elevato. Anche questa stanza è molto malmessa, come se l’intero palazzo fosse stato bombardato. Ci sono cumuli di macerie e sottili detriti accumulati negli angoli e un’alta finestra spalancata proprio di fronte a me dalla quale posso vedere fuori. Ma la luce fuori è accecante, di tanto in tanto mi sembra di scorgere erba, a volte mi sembra di vedere un’ulteriore distesa di detriti. Dentro la stanza, in un angolo, c’è un nugolo di mosche che vola nervosamente formando una nuvola molto compatta.

Poi, in controluce, noto molta polvere in sospensione e a ben vedere ci sono anche degli oggetti, forse delle pietre azzurre, che volano nella stanza, come orbitando ordinatamente attorno a centri di gravità irregolari e magici, posti qua e là. Mi rendo conto che questa stanza non è una stanza normale. Faccio alcune foto col cellulare giocando con l’esposizione e poi decido di continuare a esplorare questo appartamento.

Mi volto sulla destra e osservo ancora questo corridoio scalcinato. Il palazzo è certamente dell’800 ma il mobilio ancora in parte presente è certamente degli anni Quaranta, come sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale. Procedo per questo corridoio e mi trovo all’aperto, in campagna, ma a ben vedere è un grande orto cittadino, circondato da palazzi di tufo. Due persone abbastanza anziane che lavorano la terra si accorgono di me, alzano la schiena e mi sorridono. Io cammino verso di loro sul ciglio sterrato di un sentiero rialzato, come quelli che collegano le risaie.
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
La Cura
In lunga fila all’aperto per una pizza. Sono con qualcuno ma la fila mi sembra popolata per lo più da brutti ceffi campani. Più ci avviciniamo e più la fila si apre e scioglie per farci passare avanti. Sospetto e riconoscenza. Quando la fila velocemente finisce ci troviamo sotto un palco da concerto: si sale con delle scalette e ci si trova in un altro ambiente simile a una terrazza da ristorante vero e proprio.

Ci sono molti tavoli di legno marrone in una disposizione che però mi ricordano i tavoli di Saizeriya vicino casa a Kyoto. Le cameriere sono molto amichevoli e si finisce per fare amicizia e bere e mangiare insieme. Parlano del loro lavoro come se fossero assistenti di volo costrette a frequenti spostamenti.

In un piccolo spostamento a piedi, su scalette isolane tipo quelle di Capri, mi sembra di incontrare Henna, bionda e radiosa. Si comporta come se fosse la mia fidanzata, con affetto e confidenza.

Sono poi al mare, su uno scoglio, forse al Circeo. Strani esseri bianchi, bipedi, con grande testa e proboscide fanno il bagno e abbracciano altri esseri terrestri, umani o animali. Tutti osservano e commentano questa curiosa scena. Io faccio un video con il telefono ma poi, per tornare a riva, scopro di non toccare più e finisco per immergere il telefono in acqua. Temendo di averlo danneggiato scopro che invece l’immersione non ha provocato danni. Un sogno?

Sono a Kyoto con Mio S., ancora bambina ma stranamente famelica. Camminiamo imbarazzati proprio sotto il palazzo Haidens Kitaoji. Mi abbraccia, mi spinge sul muretto che porta verso "La Cura" e sento le sue gambe nude incrociarsi con le mie.

Sono in una macchina, seduto sul sedile posteriore, ma stavolta a fianco a me e seduta al centro c’è una imbarazzata e silenziosa Mio T. Alla sua destra c’è un’altra persona più adulta.

Qualcosa.

Si ritorna in macchina, sempre sul sedile posteriore, ma stavolta Mio T. entra per prima, seguita dall’altra persona adulta e quindi non potrò sedermi vicino a lei… E la cosa mi causa irritazione.

Onomastico di zia Maria. Io sono a letto pronto a svegliarmi del tutto e lei entra da un balcone, come se stesse rientrando dal lavoro ai tempi in cui era una donna splendida e io riesco a farle gli auguri con tempismo perfetto.

Il cellulare che ho tra le mani sotto le coperte segna la data e l’ora esatta, al secondo, del suo onomastico!

Mi alzo per fare colazione e mi trovo nella cucina comune di un dormitorio studentesco, simile al Kopo Tadekura. C’è uno strano poster-manifesto in giapponese che avvisa gli ospiti dei livelli ideale di volume per vedere i programmi italiani senza disturbare gli altri: le sigle dei programmi italiani con un volume massimo dell’80%, i programmi veri e propri al 75%, ecc…

Qualcuno in un cucinino, forse mamma o ancora zia Maria, accende un grande fornello industriale con un pentolone molto particolare, forse per bollire il pesce. Qualcosa non va per il verso giusto in quest’operazione e vedo lei che cerca di più volte di mettere le mani sulla fiamma forse per recuperare qualcosa caduta nel fuoco o per sistemare come si deve un elemento della pentola.
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
I De Filippo e io
| Fratelli De Filippo

2022-10-11
Ero tornato a Napoli per un breve viaggio. La città dopo tanti anni mi appariva meravigliosa, era forse primavera, aria fine, cielo terso, e i Napoletani mi sembravano tutti sereni e rilassati.

Passeggiavo per diverse vie della città nella parte collinare, mi ritrovavo ad avventurarmi in stradine anche minori, nelle quali riconoscevo i dettagli sbavati della natura cittadina. Cumuli di polvere e terriccio, accenni di erbacce che spuntano dagli angoli più impensabili, sampietrini dissestati... Ma trovavo la cosa gradevole, come il tic di un parente amatissimo.

Arrivavo presso un parco condominiale, riservato, protetto, in un certo senso d'alto rango. Entravo nell'ampissimo androne, tanto ampio da ricordare la hall di una stazione di metropolitana.

Le pareti erano di legno scuro, un evidente gusto anni Sessanta, ormai superato ma ancora gradevole. Notavo un ascensore di tipo molto vecchio, a funi, con cabina anche di formica lignea scura e porte ad apertura manuale. Ma io ero atteso in un grande appartamento al piano terra, forse un piano rialzato.

Mi recavo a casa di Eduardo De Filippo.

Lo intravedo fare delle prove di teatro prima una sorta di garage, poi in un patio adiacente molto verde e ben curato.

Nel frattempo io entravo in casa e venivo ricevuto da una sorta di maggiordomo. Venivo fatto accomodare su un divanetto di fronte al quale c'è un grande televisore al plasma acceso.

D'un tratto ecco che il Maestro rientra dal patio, attraverso l'apertura di un balcone.

Entrano Eduardo, Titina e Peppino! Sono tutti giovani, splendenti, radiosi, con la pelle quasi luccicante, tesa di una reale giovinezza.

Stanno ancora facendo alcuni commenti alla prova di recitazione che hanno appena terminato quando tutti e tre si siedono sullo stesso divanetto sul quale sono seduto io.

Eduardo è di fianco a me, alla mia destra e mentre da un'occhiata alla televisione accesa, mi dice:


- Mi hanno detto, dall'America, che dovrei pagare qualcosa per tutti i filmati nei quali compaio su YouTube. Ma a occhio e croce sarebbe una spesa considerevole. Dimme 'nu poco, tu che ne pensi?

Incredulo, io gli rispondo che è stato certamente male informato. E cerco delicatamente di veicolare il messaggio che forse qualcuno sta cercando di truffarlo.

- Maestro, secondo me è Lei che dovrebbe percepire una roialità per tutte le apparizioni su questa piattaforma.

Dopo una breve e intensa pausa mi fa:

- No, no, io nun pavo e nun voglio niente. Titì, Peppì, basta fare pausa. Torniamo a lavorare.
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
L'Anello
Il mondo era diventato una specie di piccolo Saturno. La Terra si era separata in due entità: il pianeta vero e proprio di sempre e un’altra fascia sospesa di detriti compatti, orbitante a bassissima quota sul pianeta.

La temperatura atmosferica era dovunque ben calda e tutto il mondo sembrava essersi riversato sulle coste: migliaia e migliaia di persone facevano il bagno ovunque avendo di fatto occupato ogni metro costiero di ogni Paese.

Il genere umano sembrava aver riscoperto l’importanza del bagno marino e datogli qualche altro milione di anni, chissà, sarebbe forse ritornato al suo brodo primordiale… Quella era la palpabile sensazione.

Sull’anello saturnino che circondava il pianeta correva un’unica ferrovia lineare: il classico anello senza fantasia, incubo di ogni modellista realista. Questa linea aveva certamente segmenti complessi, con scambi, binari di ricovero, depositi per il materiale rotabile, e ovviamente stazioni, tante stazioni, ma queste ultime erano tutte molto anonime.

I treni erano di fabbricazione giapponese, solidi e resistenti, spaziosi e facili da pulire, abituati a un utilizzo massiccio e frequente, ormai globale. In un angolo in alto in ogni vettura restava - per chi sapeva vederlo - un "o-mamori" reliquia del Santuario Narita.

Dipendentemente dal senso di viaggio in ferrovia, dalla deriva dell’Anello e dalla rotazione velocissima del pianeta Terra, bastava assopirsi un attimo per perdere una fermata e trovarsi, dopo pochi minuti, a Kyoto quella in Tanzania, invece che a Budapest!

Mi era infatti appena capitato di perdere una fermata, solo per essermi distratto a parlare con altri viaggiatori. Capitava a tutti e molto spesso, a dire il vero, perché il mondo intero aveva da poco ottenuto il suo anello globale ferroviario, e in cabina il fuoco di ogni conversazione era – ovunque si volgesse la propria attenzione – su quando e dove scendere per fare il prossimo bagno al mare.

Dal treno, grazie alle ampie finestre, si poteva vedere, per la maggior parte della corsa, il paesaggio sottostante, e questo era di una bellezza da restare imbambolati. L’Anello della Terra dava la possibilità di osservare dall’alto, stando sì in orbita, ma da un’altitudine bassissima. Era l’altezza simile a quella di una collinetta ma abbastanza da dare l’impressione del miracolo del galleggiamento in orbita, in barba alla forza di gravità. Era la giusta distanza per vedere ad alta risoluzione i dettagli del paesaggio e – in alcuni punti – perfino credere di riconoscere qualche amico o parente sul bagnasciuga.

Il treno si fermava alle stazioni, i passeggeri scendevano normalmente, ma l’Anello, sul quale era costruita la ferrovia, continuava la sua deriva per cui era in uso un curioso sistema di trasbordo collettivo Anello-Terra-Viceversa che mi ricordava quello per salire o scendere da ruote panoramiche e funivie.

Dalla stazione, in men che non si dica si era a Terra. Tutti attratti dalla discesa a mare, per bagnarsi. Molti si bagnavano da vestiti, tanta era l’impellenza. Capitava sempre di incontrare qualcuno di conosciuto nei lidi più impensati: il bagno, l’Anello e la ferrovia avevano reso il mondo un unico villaggio balneare. Oh mio dio, le coste pullulavano di persone, di busti. Chi non aveva ancora messo almeno le caviglie a mollo era guardato con pena e tenerezza.

Lungo tutte le coste si erano creati più o meno spontaneamente gli stabilimenti balneari relativi, principalmente fatti di file di cabine di legno. Ma – dico – file - interminabili - di miliardi di cabine…

Guardando dall’alto, dall’Anello, d’avanti a questa fila di cabine: il mare e miliardi di bagnanti; dietro questa muraglia lignea di cabine: ormai il nulla più incolto, in un certo senso la Natura di una volta, prati verdi, savane, branchi di animali liberi e felici. Nessuna umanità più.

Qualcuno giù sulla costa mi riconosce, scambio una chiacchiera cortese ma non riesco a ricordarmi chi sia questa persona. Capisco poi che molte di quelle cabine sono utilizzate per scambi di effusioni e relazioni fugaci e clandestine. Sorrido, declino l’invito e decido di tornare al treno, per cambiare velocemente Continente. Prima di imboccare la strada in salita per la stazione, vedo centinaia di persone in fila per un supermarket locale.

Sul treno, mi pongo all’ultimo vagone, dove dall’ampia vetrata di coda godo di questa visuale letteralmente d’altro mondo: il treno sferraglia e scorre su questa striscia di ballast, ghiaccio e detriti, che cinge il Pianeta. Faccio molte fotografie. Poi dal centro del vagone un vociare mi distrae e richiama. Sono turisti, italiani! Alcuni uomini barbuti e muscolosi e una donna magrissima e bionda, con molti tatuaggi. Io cerco di nascondere il fatto di provenire quantomeno da un’altra linea narrativa. Parlano italiano con accento settentrionale ma alcune parole che usano sono totalmente fuori della mia comprensione.

Appena mi avvicino a loro - e su questo treno non ci sono sedili, si sta seduti a terra a gambe incrociate - lei mi abbraccia di lato come a tirarmi dentro al gruppo. Fa per darmi un inatteso bacio sulla guancia e finisce per baciarmi lungamente sulle labbra, ma sempre di lato. Gli amici mi guardano sorridenti e ansiosi di darmi a parlare. Lei dice di avermi osservato mentre scattavo foto e che lo trovava curioso: nessuno scatta foto dall’Anello. Mi consigliava, senza dare troppo nell’occhio, di allestire magari in forma anonima una mostra da qualche parte per permettere anche ad altri di guardare i bagni dall’alto.

Resto silenzioso e incamero la corpulenta informazione.

Poi di scatto lei fa per adagiarsi sulle mie gambe incrociate e si sbottona la camicetta. Al centro del seno, piccolissimo, c’è un forellino nella pelle sullo sterno, sul quale è applicato un tappino di plastica bianca. Da questo forellino si vede chiaramente la traccia della colatura, ricorrente, di un liquido organico di qualche tipo. Lei prende dal borsone da viaggio una specie di siringone e attraverso una corta cannula flessibile si inietta un liquido trasparente in petto, ma che a me appare molto denso. Poi si scusa e dice a tutti che era proprio l’ora dell’iniezione.

Io da turista esploratore, con un sorriso tanto minimo quanto odioso e falso, accondiscendo a tutto pronto a cambiare argomento. Ma qualcosa deve aver allarmato questo gruppo perché d’improvviso mi chiedono: -

Ma tu ce l’hai il beccuccio in petto, vero?
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
Machine is your friend
Machine is your friend - Night Rider
Aprì gli occhi e si ritrovò seduto su una sedia, un po’ troppo alta perfino per lui.

Era tutto buio intorno ma poteva parlare in direzione di un fascio di luce sottile, accecante e pulsante, come quello di un proiettore, che gli veniva giusto in faccia.

- Dove sono? – domandò come appena uscito da un’apnea.
- Sei morto. Ma stai bene. – gli rispose una voce.
- Non dite cazzate! Dove sono?
- Eh… sei morto. Ma ora ti spiegheremo tutto. Sta’ tranquillo.
- Come sarebbe a dire “sto tranquillo, sono morto”? Fino a un minuto fa ero a casa mia!
- Sì, crollato a terra per un infarto.
- E va be’, ma ero a casa mia, o no?
- E ora stai qui. Ma non ci resterai a lungo, solo il tempo di una chiacchierata.

“Una chiacchierata” lo tranquillizzò. Poi ebbe un altro scatto.

- Fatemi andare via da qui, devo tornare indietro. Saranno tutti preoccupati per me.
- Non diremmo… Sulla Terra, ora, sono tutti preoccupati per loro stessi. Devi comprenderli. Certo, sono dispiaciuti per te, e ancora piangono, ma perché poi? Del resto tu stai bene, non trovi?
- Ma che discorsi! Vi prego, fatemi tornare indietro, c’ho famiglia!

La voce si prese una pausa. Poi, chiese:

- Alessandro. Cos’hai sognato la notte scorsa? Sappiamo che te lo ricordi, perciò te lo chiediamo.
- Beh, in effetti, dopo tanto tempo ho fatto un sogno… erotico. E la cosa mi ha colpito.
- Vuoi darci qualche particolare?
- Mah, era un sogno poco strutturato. Ricordo varie eiaculazioni, un pranzo in un “family restaurant”, tanti visi confusi ma amichevoli.
- Beh, quella era la tua vita.
- Che cazzo mi significa?
- Vogliamo dire che indietro, nei sogni, non si torna. E se lo fai, sarà come sognare di sognare in un sogno.
- Maronn'... E… mmo?

La voce si prese un’altra pausa e poi concluse.

- E ora = e mmo’ = lavora di fantasia. Fatti delfino o farfalla. Il paradosso continua.
- E non posso tornare a sognare?
- E cosa credi che tu stia facendo adesso?
- Oggesùmmio. Dico, il sogno di prima.
- Se ci riesci saresti il primo!
- Ma perché sono qui?
- Ci sei venuto tu! In genere la gente dopo il tunnel incontra genitori e nonni con le braccia stese sul bordo di prati e colline vergini.
- E perché io sono qui?
- Perché sei un rompicoglioni! E vuoi sapere ciò che nessuno potrà mai capire.

Una pausa durata un’eternità…

- Posso almeno incontrare mia madre?
- Ci dispiace, non è più possibile...

Singhiozzò qualcosa come due secoli terrestri. Poi chiese:

- Ma cos’è questa musica?
- Si chiama “Machine is your friend”. È di Night Rider. La mettiamo sempre a fine chiacchierata. Piace al Capo.
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
Il clan dissonatore
Venivo avvicinato da un amico svizzero di vecchia data che mi proponeva di entrare a far parte del suo clan molto… speciale.

Dopo un primo scambio ambiguo di convenevoli e curiose domande, la sua proposta si fa subito estremamente chiara. Il suo clan si occupa di generare trabocchetti semantici di lunga durata in grado di fiorire nella società umana e generare, a loro volta, ostacoli di una certa fisicità agli umani e costringerli all’immediatezza di scelte che non solo non potranno mai rivelarsi giuste ma che non avrebbero mai dovuto aver luogo sin dal primo momento.

Io resto interdetto da questa sua ammissione e dal suo chiaro invito a far partecipare anche me.

Non capisco i motivi dell’esistenza di un tale gruppo di lavoro, qualcosa mi dice che dovrei ripiegare e ripudiare quest’amicizia, eppure avverto fortemente la difficoltà a fare ciò, avverto cioè il fatto che una relazione - sociale, anche solo di amicizia - non può essere tranciata facilmente di netto alla prima incomprensibile svolta.
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
Loro, lei, lui, il guappo e io.

2021-07-10
E al sentire quelle urla tutti gli amici si riversarono nell’aia, uscendo dal portone quasi come fossero una cascata d’acqua umana. Io mi trovai sotto un balconcino, quello del palazzetto subito di fronte, e proprio su quel balcone del secondo piano, spuntò una giovane donna, bionda, con una bambina in braccio, sbraitando in dialetto veneto!

Restammo tutti stupefatti! Chi si sarebbe mai immaginato, in un posto del genere, di imbattersi in qualcuno della nostra stessa nazionalità! E questa donna sembrava essere residente di lungo corso, sicuramente sposata con un locale, ed evidentemente infastidita dalla nostra presenza, un po’ troppo allegra, chiassosa.

Alessandra Morosini mi prese per mano e facemmo per allontanarci con fare complice. Bastò imboccare una larga discesa per lasciarci tutto quel trambusto alle spalle e in poco tempo ci trovammo in un luogo panoramico, di gran classe, con tavolini romantici sistemati su una scacchiera di terrazzini incantevoli. Il panorama sul mare era mozzafiato, il sole era appena tramontato, l’umida e infinita bruma color cobalto rendeva l’aria stessa una trama tessile, la fiamma delle candele sui tavolini vibrava a un vento leggerissimo.

Lei si accomoda, di spalle al mare, e ora la sua espressione è come minacciosa, o seriamente preoccupata.

Spudoratamente, io invece non mi siedo e dopo un piccolo slalom tra sedie e terrazzini occupati da turisti scandinavi, salgo vari gradoni, fino a entrare in una caffè-tabaccheria, alcuni livelli più in alto in questa sorta di… presepe amalfitano fuori dal mondo.

L’odore del caffè, il vociare, un registratore di cassa di quelli antichi, un aitante barista dietro al bancone, persone, persone, tutte a loro agio, e anche un carabiniere di mezza età, ben messo, che è evidentemente lì, a ciondolare, per gran parte della sua giornata. Che nostalgia. In quanti locali come questo sono entrato nella mia vita, specialmente di transito in qualche stazione del centro Italia.

Io scambio battute con tutti, nessuno mi conosce, ma tutti sono disposti alla chiacchiera, al mio futile commento su tutto. È sempre stato così, ricordo bene!

Poi entra un altro cliente, un giovanotto robusto, sicuro di sé, conosciuto da tutti, e con un fare un po’ guappesco. Saluta, saluto, dice qualcosa e senza controllarmi io lo apostrofo allegramente, come se in passato avessimo già avuto quotidianamente scambi del genere.

A mano a mano che si fa strada nel locale, lui parla e sorride, io tengo il gioco, ma gli altri si insilenziscono gradualmente. Il guappo si dirige senza errore verso una persona in particolare, un altro giovane avventore che era lì alle mie spalle, e comincia a dargli addosso con epiteti sempre più irritanti, umilianti, evidentemente riferendosi a uno sgarbo irrisolto tra i due di cui tutti noialtri siamo all’oscuro. Lo prende per il bavero, ma sorridono entrambi, uno di perfidia e l’altro di vergogna. Cominciano a piovere buffetti sempre più energici, scappellotti chiaramente dolorosi, la massa del guappo sovrasta l’altro giovane, e sempre accennando a qualcosa che non sarebbe dovuto succedere, il guappo sferra pugni violentissimi sul viso dell’altro.

Io resto immobilizzato per la sorpresa, e vedo il carabiniere allontanarsi, e sgattaiolare fuori attraverso la porta di vetri sottilissimi. I due sono ora a ridosso del bancone, il viso della vittima è ormai già tumefatto, irriconoscibile, maschera di sangue, implora pietà.

Io faccio per uscire dalla stessa porta a vetri, non è proprio il caso per me di restare qui e continuare a far finta di conoscere tutti. Io sono del resto un turista, io non sono nessuno, la verità è che io non so neanche dove mi trovo! Mentre per guadagnare l’uscita sfioro i due, ancora l’uno sull’altro, il guappo prende una cucchiarella di legno che era sul bancone e la spezza in due come fosse un grissino. Mi resta impressa nello sguardo una delle due estremità frammentate di questo legno, e con quel legno, appena sono uscito, il guappo infierisce sugli occhi del povero giovane giurandogli poi che lo avrebbe comunque finito.

Non è possibile, mi dico… Io non sono in grado di fare una cosa del genere.
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
La ragazza del mondo accanto
Илья Мельниченко | Dreamy Girl
Sapporo
2022-10-27
Ieri notte ho fatto un ennesimo sogno d'amore, erotico, turistico... Ero nel solito spazio-nazione dei miei sogni e stavolta, dopo aver incontrato, conosciuto e fatto innamorare, una giovane ragazza, mi trovavo finalmente in casa sua, in un piccolo appartamento (forse al quarto piano di uno stabile) caratterizzato da un'enorme vetrata che dava sulla strada.

Era una serata autunnale che dava sull'inverno e i lampioni della strada proiettavano un bagliore giallastro, poco giapponese.

Il suo lettino era proprio accostato alla vetrata e su quel lettino ci siamo velocemente esplorati, navigati, immersi nei nostri mari - senza sapere troppo l'uno dell'altra - soddisfacendo innanzitutto quell'istinto e quel languore che combattono - in tutti noi - l'eccessiva solitudine della modernità umana.

Durante l'amore, mentre facevo mia ogni piega di questo corpo, ascoltavo una conversazione telefonica di un'altra ragazza, provenire chiaramente dall'appartamento sotto al nostro. E anche in sogno, velocemente, ho pensato di trovarmi in una sorta di dormitorio femminile studentesco.

***

Poi mi sono svegliato, ma felice e soddisfatto come se avessi amato davvero.

Un paio d'ore più tardi sono andato a bere un caffè mattutino in un "kissaten" sulla Grande Via di Sapporo, normalmente frequentato da anziani.

D'un tratto entra una ragazza di poco più di vent'anni, in completo nero da affari, e si siede proprio al tavolino accanto al mio.

Sento chiaramente una tensione tra noi, una comunicazione non verbale e non epidermica tra gomiti che non si possono toccare...

In fretta e furia mi alzo e vado via.


Oggi qualcosa mi dice che: gli sconosciuti che spesso vediamo in sogno altri non possono essere che persone reali, anime vaganti con le quali abbiamo condiviso la notte nell'iperspazio onirico.

Si condividono così tante cose con gli sconosciuti... Perché lo spazio e il tempo infiniti dei nostri sogni dovrebbero essere un'eccezione?
Alessandro Wm Mavilio
- Yume -
Torre Caracciolo
Dietro le palpebre c’è di tutto. Le chiudo, pochi bagliori laterali come velocissime pennellate di luce di un artista pazzo, i nervi dietro al collo che si irrigidiscono, ancora balenii confusi sempre più veloci e poi arrivano quelle figure.

Alberi, tigri, fiumi che scorrono, il corrimano di legno di qualche tempio, lanterne di antiche chiese viste dall’alto chissà quando e come, e i visi di tutta una vita. La testa che mi duole proprio al suo centro. Un ronzio che cresce incessante e che poi scompare all’improvviso e io che mi ritrovo da qualche parte, tutto intero ma spaesato.


Sono a un trivio. A sinistra ho una strada tortuosa e panoramica che scende a valle e collega due città. Al centro la mia strada, e a destra la piazzetta, con la chiesa e il circolo dei cacciatori, e forse un forno di paese.

La mia strada al centro sembra un canalone. Come sempre accade in queste improvvise visioni, sono rivolto a un preciso punto cardinale. Stavolta è l’Ovest. Se mai posso muovermi è solo in una direzione. Stavolta sono fortunato. Di fronte a me ho proprio la mia strada, tutta in discesa. Sorrido, perché posso camminare o… scivolare come un fantasma.

So bene di essere in un sogno, e so anche che posso svegliarmi da un momento all’altro. Ma mi sento giovane e sfrontato, e decido di camminare, come un ricco turista in visita al terzo mondo. Voglio il massimo da questa esperienza, voglio sentire i ciottoli lucidi sotto i piedi, gli odori di lavanderia del canale aperto della fogna, l’odore di uva e muffa che esce da qualche scantinato scavato nel tufo, le promesse che la selva già mi fa da qui: rami, fogliame, terreno umido, piante dalle foglie vellutate.

Cammino lentamente, ma non me la ricordavo così lunga la strada di casa. Poi mi fermo, quando vedo svettare dagli alberi i merli della Torre Caracciolo. Quanti ricordi a vedere quel cancello, sempre chiuso, quanta vita, quanto amore, quanta natura, quante famiglie, quanta società, quanta paura e brividi, quanta polvere, quanta farina e quanto pane, e quanto panorama.

Quante notti e quanto sudore, quanta musica nella notte, quanti echi, tramonti, tempeste sul mare, grilli, latrati, nitriti.

Ma in queste visioni non sono mai libero di muovermi. Già è tanto se stavolta posso camminare. E mentre mi guardo le mani, e poi i piedi, ecco il messaggio di questa volta.

Ai miei piedi un frammento di quaderno di scuola elementare, malconcio e con una traccia di pneumatico. Non posso piegare la schiena, riesco a malapena ad abbassare il viso e gli occhi e cerco di leggerlo.

È scritto con una grafia d’altri tempi: mia nonna paterna e alcuni miei zii scrivevano così. Un corsivo che oggi non posso che definire elegante, molto ben legato, estremamente coricato verso destra. Mio Dio, che bello! - mi dico con impetuosa e genuina ammirazione per l’autore di questo frammento. Che bello sarebbe tornare tutti a scrivere così: pagine e pagine su quaderni da poco.

Poco importa se finisci malconcio su una strada di collina, prossimo a dissolverti, deriso e calpesto; la carta e l’inchiostro, in questo loro matrimonio anticamente combinato, sopravvivono con forza, si tengono insieme chissà da quanto e sopportando quali umiliazioni. Sopravvivono con forza, anche al di fuori della realtà, forse perfino incapaci di morire…

È il caso di provare compassione per una riga d’inchiostro scritta su un quaderno elementare? – mi domando… E mentre il mio pensiero ancor di più si frammenta (osservazione, giudizio, empatia, calcolo, proiezione) una parte di me è richiamata al concetto di sopravvivenza. Non è forse questa – la sopravvivenza – la segreta aspirazione di ogni scritto? Di ogni sodalizio? Carta e inchiostro, più di altro, non sono un esempio sublime di sodalizio?

Se non avessi mai avuto un corpo, mai avrei potuto specchiarmi, stancarmi e riposarmi, sognare o avere aspirazioni o ricevere lezioni…

È il mio stesso corpo – resistente eppur delicato come carta – la controparte femminile di un sodalizio a me stesso ancora sconosciuto? È forse questa la lezione da imparare in questo sogno? E mentre cerco di leggere cosa vi sia scritto, mi duole il collo, sento gli occhi cadermi dalle orbite, un tremore mi assale. Il ronzio elettrico come di cento cicale lontanissime torna udibile e fa per aumentare e prende le sembianze sonore di un enorme tamburello cosmico da tarantella, e io appena faccio in tempo a leggere, da sotto la punta del mio naso fino a giungere al biglietto ai miei piedi: “Marzio, perché”.

Poi come al solito mi risveglio, la nuca zuppa, io sono rigido e dolorante. E sempre mi dico che morire non deve essere molto diverso da tutto ciò.
Alessandro Wm Mavilio
Orientalista, scrittore e ricercatore indipendente, Alessandro Mavilio ha insegnato all'Università Industriale di Kyoto. Attualmente vive in Hokkaido.
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