Alessandro Wm Mavilio

Quaderno
Raccolta non ordinata di scritti

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Alessandro Wm Mavilio
Quaderno
Raccolta non ordinata di scritti

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Indice
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Propaganda Fide
La mia reazione a freddo - anche a tale questione - è la seguente.

È senz'altro così, ma a ben vedere siamo già cotti e bolliti a puntino, soprattutto lo è la nostra generazione dei nati o cresciuti negli anni Ottanta. Siamo già stati preparati alla colpa di essere occidentali, o bianchi, o "ricchi" e pieni di "giocattoli", o anche solo appartenenti a culture lungamente fortunate del pianeta. La narrazione necessaria a dirottare le coscienze più distratte (anche sulle questioni climatiche) è dunque cominciata a essere percepibile almeno venti anni fa.

Poiché a ben vedere i maggiori danni psicologici alla nostra vita spesso ce li auto-infliggiamo, spesso anche solo con meccanismi reattivi di auto-calibrazione, volti alla convivenza e all’accettazione sociale, l’unica via di uscita per sfuggire a situazioni o narrazioni che la cui pressione è tale da cagionarci questi “click comportamentali irreversibili” e dei quali ci si potrà pentire – è secondo me quella di… sfuggirne attivamente, di blindare le proprie finestre comunicative - per inciso, quelle che in informatica si chiamano “porte”.

Non è una frase fatta. Blindare una porta, una finestra, un frigorifero, un telecomando, occhi, orecchie e cuore, è qualcosa che sappiamo fare benissimo, che in misura più piccola abbiamo fatto tante volte nella vita e che possiamo riprendere a fare in qualunque dato momento, soprattutto se è un meccanismo di difesa, soprattutto se ci rendiamo conto che il chiacchiericcio mediatico - che per anni siamo stati abituati a tollerare nelle nostre vite (e forse perfino ad apprezzare come una compagnia gratuita e ricca, pensando che non fosse altro che un sottofondo innocuo di musica, parole e opinioni) – è oggi invece stato tramutato in una rete di megafoni onnipresenti per la propaganda di sapore totalitario che sappiamo.

Dunque, il lavoro necessario a resistere e respingere questa propaganda, che prima di cambiare le società per intero cambia in realtà i nostri cuori individuali, è semplicemente quello di sottrarsene, blindarsi a ogni costo. A ogni costo.

Ricordi il periodo anni Ottanta in cui si parlava di conflitto atomico? Da bambino io ricordo di aver visitato in Svizzera i rifugi antiatomici che la gente si era fatta costruire sotto il giardino di casa. A parte che quella minaccia atomica, tanto pompata da smuovere ruspe, sventrare terreni e portare governi e cittadini a spendere soldi per farsene costruire uno, si è poi rivelata (per fortuna o per caso?) una minaccia così “globale e diffusa”, da rivelarsi inconsistente, ciò che mi preme riportare alla nostra superficie conscia con l’esempio estremo dell’auto-isolamento atomico è che un meccanismo psicologico, sociale e ambientale di blindatura e isolamento (per un periodo tale da sottrarsi alla radiazione di turno) è assolutamente un diritto e un dovere di ogni essere vivente. Si pensi anche al letargo di alcuni animali, che altro non fanno che sottrarsi alle “radiazioni del gelo invernale”: letargo che è nelle corse di Madre Natura da ben prima che le scimmie impazzite rendessero questo pianeta il palcoscenico di una commedia, invero molto poco divina.

Oggi è chiaro che la nuova guerra (che come tutte le guerre vede dei giocatori impegnati a ridisegnare per profitto i propri confini di influenza su economia, territori e popolazioni) si gioca su tutti quei canali che possono veicolare un messaggio. Perciò si può chiamare - e già è chiamata - guerra mediatica. L’inizio di questa guerra mediatica, a mio avviso, può essere ricondotto al “Boom informatico” che abbiamo vissuto con imperdonabile superficialità. (Sul “Boom informatico” conto di scrivere un articolo a parte.)


Ora, il problema per cui molti di noi hanno problemi a blindarsi (sia socialmente che fisicamente) è che in tutti questi anni lo spessore psicologico e interiore di noi tutti si è talmente assottigliato da risultare “non pervenuto”.

Un mio professore dell’Istituto d’Arte, in maniera molto offensiva, ce lo urlava ogni giorno. Ci diceva: “Non sarete mai artisti! Voi siete degli involucri vuoti!” E ripeteva “involucri vuoti” sottovoce per quasi tutta la durata della lezione. E aveva ragione. Tale mi sento io oggi, nonostante tutti gli sforzi per coltivare la mia anima più interiore, e peggio ancora se ascolto le parole sapienti e senza sconti di Mario Monicelli, per citare un altro maestro che di umanità e comunicazione si intendeva egregiamente.

La seconda parte del XX secolo ha svuotato le anime e ha fatto di noi degli individui capaci di credere solo a ciò che è materiale, capaci principalmente di consumare e incapaci quindi di resistere il confronto 1 a 1 con il mondo vero, quello naturale e immediato, non-mediato, quello senza gerarchie posticce, senza società e senza Dio, un mondo che quando davvero incontrato, conosciuto e abbracciato, per qualche motivo scintillante e misterioso, genera animismi, taoismi, cristianesimi.

È vero, le religioni hanno dato reale conforto a tante persone che nel passato si sono trovate sotto il gioco malvagio di società impazzite o ipnotizzate, o incapaci di generare da sé una scintilla di senso per la loro venuta a questo mondo. Ma anche quello delle religioni è secondo me oggi un gioco ancora parziale, una strategia incompleta, un’opportunità pericolosa perché si affida a strutture precedenti, ammettiamolo, di indole dichiaratamente totalitaria, occupate da ministri di media moralità.

Oggi noi avremmo bisogno di rifare ex-novo una esperienza mistica originale.

Come ho detto altrove, occorre trovare il coraggio di visualizzare il più sacro tabernacolo dell’umanità, quello che contiene il senso ideale dalla vita sulla Terra. Cerchiamolo questo tabernacolo, e lo troveremo incustodito. Apriamolo e lo troveremo vuoto.

Oggi più che mai dovremmo imparare a gioire del silenzio, della mancanza di informazioni e perfino della mancanza di compagni. Qualunque moltiplicazione romantica e collettiva non aggiunge nulla al vuoto di ciclico senso che stringe questo pianeta, forse l’intero Universo.

Tornando a noi, oggi, in primissima e ultimissima analisi, le minacce mediatiche correnti mirano a distrarre ed espropriare il cuore dei singoli, e lo stanno facendo espropriando ciò che a noi sembra reale, acquisito, collettivo, funzionale e funzionante: la democrazia, il territorio, le economie. Ma l’uncino malvagio mira a quel cuore (心) abbandonato, spesso da noi stesso maltrattato, ignorato. Quel cuore può essere salvato dal suo solo proprietario.

Proteggi quell’unico “sacro cuore”, in qualunque egoistico modo possa venirti in mente, e starai cento passi avanti qualunque narrazione, amica o nemica. Custodisci l’unico vero tabernacolo che conti.

Lo hai visualizzato? Lo hai trovato? Hai visto che esiste? Hai visto che tolta l’immondizia e le reclame accumulatesi in secoli è di fatto vuoto? È tuo e solo tuo.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Giappone a doppia mandata
Vivere in Giappone (anche solo da residente e non da cittadino) assicura una certa protezione dal decadimento dei costumi internazionali.

Uno dei più deleteri effetti della globalizzazione è proprio l'annientamento dei confini geo-politici, l'annientamento delle distanze e delle separazioni naturali tra aree culturali, e dunque l'annientamento del set di diritti e dei doveri (di residenza o cittadinanza, che siano) normalmente e secolarmente collegati al proprio senso di appartenenza a una data cultura o a un'area produttiva.

Avendo sperimentato come tanti e sulla propria pelle la lunga rivoluzione tecnologica del XX secolo, posso individuare nella mia mente la catena di eventi (e novelle distrazioni) che ha portato l'Occidente al decadimento del suo senso di cittadinanza e di identità locale, familiare e personale.

Ricordo precisamente lo stordimento e la brillantezza dell'escalation tecnologica e comunicativa alla quale anche io sono stato esposto da ragazzino.

Dal televisore in bianco e nero a quello a colori, dalle sole tre reti televisive nazionali all'aggiunta di altre tre commerciali, la moltiplicazione di canali locali, l'abusivismo radiofonico per accaparrarsi le frequenze, i programmi televisivi che su alcune reti iniziavano solo verso le 11 del mattino fino alla programmazione H24 senza più un "intervallo". E contestualmente pubblicità e pubblicità che modificavano il pensare e sentire quotidiano, l'arrivo dei videogiochi in casa e poi dei telefoni cellulari e dell'antenna parabolica con le quali bagnarsi di culture, gusti e messaggi lontani.

Tutto era selvaggia e spericolata inclusione.

E' stato senza dubbio tutto sfolgorante, una bellissima ubriacatura di suoni e colori. Ma è anche vero che da ubriachi si fanno tanti errori di valutazione: causa ed effetto vengono percepiti su una scala temporale falsata, una scala su cui il nostro percepire, pensare e controagire non saranno mai più al passo con il dispiegarsi degli eventi attorno a noi.

E' lampante, dopo trent'anni da quella ubriacatura, rendersi conto che qualcuno ha violato l'originale integrità del povero ubriacone, instillando nella sua mente programmi culturali, economici ed egemonici precisi.

Tra questi, la rinuncia forzata all'identità culturale.

L'Occidente ha protetto la sua identià continentale, regionale, nazionale - forse anche fortunosamente - per secoli, riuscendo a galleggiare sulle onde caotiche di qualunque altro conflitto e riprendere la sua navigazione.

L'olandese che sopravviveva alla I Guerra Mondiale, si ritrovava forse stracciato ma pur sempre olandese, l'italiano che sopravviveva alla II Guerra Mondiale, tornava a fare l'italiano. Oggi - dopo trent'anni di esposizione all'inclusivismo totale - perfino il napoletano (per citare l'esponente di una cultura microscopica su scala mondiale) non è più napoletano.

Non mi interessa qui criticare questo deleterio processo di dissoluzione e sovvertimento, giacché i suoi risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma mi premeva appuntarmi come la fortuna di essere una nazione insulare protegga il Giappone da questo tipo di decadenza interiore delle masse.

Non che il Giappone non sia stato bombardato, esposto (o non si sia volontariamente esposto) alla stessa doccia alcolica e orgiastica di colori e mode estere, ma forse lo ha fatto confidando in (o trovandosi salvato da) un qualche "enzima geo-politico-culturale", proprio come coloro che possono fumare e bere per tutta una serata senza trovarsi schiavi di un vizio il giorno dopo.

A dire il vero, ai miei occhi ciò che sembra un processo di consumazione o decadimento sembra aver luogo anche in Giappone, ma a ben vedere si tratta di una sorta di spazzolatura/lucidatura dei "termini che fanno il cittadino giapponese".

Ascolto spesso i discorsi dei giapponesi in treno o trattoria e molto spesso tra di loro si fanno discorsi del tipo: "Vedi, i Giapponesi sono precisi e quindi è normale che..." oppure "Noi Giapponesi siamo timidi e dunque...". Trovo molto curioso che questo tipo di frasi sia scambiato tra appartenenti di una stessa etnia, non può dunque essere che un processo di lucidatura reciproca dei termini.

Non ho mai ascoltato discorsi simili tra italiani, se non di segno opposto, demolitorio.

Certamente il giapponese di oggi è diverso da quello del passato, ma il modulo passato è tenacemente conservato: una sorte di sindrome virtuale dell'accumulo. Il giapponese più moderno di oggi è ancora nell'intimo un pescatore, un coltivatore, un militare, un prete...


Come accennato, a proteggere il Giappone geograficamente è senz'altro la sua insularità, caratteristica che non permette con facilità il riversarsi di importanti flussi immigratori illegali. La stessa insularità mantiene forte il senso giapponese di sacralità dei territori a propria disposizione.

Questo senso sacrale dei confini (imposti dal mare di Dio) rende molto difficile sbiadire i confini nazionali in nome di qualunque assurdo trattato politico con gli Stati geograficamente più vicini. O meglio, se mai qualcosa del genere avvenga, resta un accordo... virtuale che non sovrascrive la realtà tangibile dei fatti.

Insomma, se un napoletano può oggi decidere di sentirsi italiano (magari anche per sfuggire all'abbraccio soffocante di una cultura forse ritenuta anacronistica o minore o inferiore), un caprese o un procidano dovranno prima di tutto sentirsi napoletani, per poi, eventualmente, aspirare a sentirsi italiani, o europei o "cittadini del mondo".

Questo per dire che l'isola ostacola in primo luogo (e fortunatamente) alcuni processi di politicizzazione e culturalizzazione. Ma il Giappone dimostra anche che l'isolamento geografico non necessariamente ostacola i processi economici o di evoluzione tecnologica. Si riscrivano dunque i propri appunti: le "lontane isole del Pacifico" non sono tutte luoghi di sabbia, mare e bermuda.


L'isola è un concetto non molto diverso da quello di "globo". Nascere isolani è come nascere... Terrestri: per gli isolani interviene prima il riconoscimento dei - e la riconoscenza ai - confini fisici più immediati e solo successivamente fanno breccia le costruzioni culturali (endogene) o politiche (esogene) per la generazione di un senso di residenza e cittadinanza.

Mi piace pensare che millenni fa i Giapponesi abbiano coscientemente deciso di stabilirsi su un territorio fatto di isole proprio dopo aver osservato cose accade / quanto sia difficile conservarsi integri sulla terraferma. Essere ospiti in Giappone, o risiedervi lungamente o anche esserne cittadini/sudditi non è poi diverso dal trovarsi a bordo di una flotta perennemente al largo. Qui a bordo il tempo può scorrere diversamente e per forza di cose si è costretti a preservare una gerarchia integra che può comunicare con la terraferma ma da essa non si fa annichilire.


Un altro super-potere giapponese è poi il suo sincretismo, che oggi come mai, gli viene in aiuto per doppiamente proteggerlo dalle frasi sconnesse e dalle gomitate convulse delle altre nazioni occidentali, in preda alla loro spirale di auto-annientamento.

Ciò che di esterno viene adottato dal Giappone viene da sempre integrato celermente e per estremo utilitarismo, ma la dismissione di qualunque oggetto culturale non è mai veloce come la assunzione originaria. Mi sembra di poter dire che il Giappone ritiene quasi tutto e produce molti pochi scarti, forse anche grazie alla sua capacità di compattazione (un vero e proprio dono).
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Unsubvertible Japaん
Credo che il Giappone sia l'unica Nazione che nella storia abbia dimostrato la sua insovvertibilità politica.

Il termine "insovvertibile" non è qui casual, né casuale.

La volontà di sovvertire una nazione antagonista - con la sua cultura, il suo assetto secolare - è qualcosa di antichissimo e ben radicato su questo Pianeta.

La sovversione è una vera e propria arte, e dispone perfino di procedure che, secondo un sentire più moderno, possiamo definire scientifiche.

È possibile sovvertire un Paese attraverso finestre di opportunità che si estendono tra i 30 e 70 anni. L’unica dote necessaria è la sovrumana capacità di attesa per lo sviluppo del processo.

La dima temporale primaria per innescare un processo sovversivo è infatti nella durata necessaria a che una data generazione (nella nazione antagonista e obbiettivo) nasca e diventi naturalmente adulta.

I moti naturali, caotici e interni che tutte le nazioni (soprattutto quelle democratiche e libertarie) sono costretti a proteggere (e spesso a caldeggiare, per riconfermare nel tempo la propria democraticità) sono il vettore principale del loro probabile e futuro capovolgimento / sovvertimento.

La nazione che voglia sovvertirne un'altra pone le sue aspettative, infatti, su questi moti caotici e attraverso una rete di cellule semi-dormienti ne favorisce il fiorire, durante il primo e lungo processo di demoralizzazione del Paese.

È facile demoralizzare una cultura: è sufficiente amplificare le sue idee esageratamente progressiste e, se possibile, al tempo stesso, metterla in inferiorità industriale ed economica. Famiglie, imprese ed attivisti politici vengono distratti su temi aldilà dell’orizzonte per loro più naturale e la loro attenzione distolta dal presente.

Successivamente, attraverso processi ecologici (percepiti dalle vittime della sovversione come naturali) le cellule dormienti, risvegliate, portano tale nazione / cultura in una fase di destabilizzazione, nella quale i processi originali di autogestione o mantenimento dello Stato non sono più agili o praticabili.

Tutto ciò accade attraverso procedure assolutamente legali, costituzionali e perfino positivamente percepite dal popolo vittima: istituzione di nuovi partiti politici, associazioni di cittadini, manifestazioni principalmente pacifiche, esposizione dei bambini a nuove, moderne (e vacue) ideologie.

Il Paese vittima crede di vivere una fase di rinascita e rinnovo, e invece sta inconsapevolmente partecipando alle azioni necessarie alla sua stessa resa incondizionata e disfatta; disfatta che è stata progettata in un passato così lontano da essere invisibile agli occhi dei presenti ma abbastanza vicino da soddisfare le strategie di una potenza politica.

La fase successiva in cui la nazione vittima è portata è quella della crisi emergenziale.

È crisi quando “qualcosa negli ultimi venti anni sembra non aver funzionato”, i governi che si succedono sembrano non avere il controllo della situazione, le procedure costituzionali si rivelano troppo lente e sono percepite come obsolete, e il Paese si divide normalmente in due macro-categorie: i nazionalisti (destinati a ricevere la più amara delusione) e gli insurrezionalisti dell’ultima ora (coloro che inconsapevolmente consegneranno di fatto il Paese nelle mani del nemico lontano.)

Nella fase di crisi non giova essere nazionalisti perché la Nazione per cui si sarebbe perfino disposti a morire non esiste più da molti anni. Come durante la fase di "pupazione", i suoi stessi moti interni la hanno di fatto dissolta in qualcosa d’altro. Agire ora sarebbe abortire una metamorfosi già in corso d’opera e il prezzo da pagare sarebbe comunque la morte dell’organismo.

Insorgere durante la fase di crisi significa accelerare il processo originale di sovversione: è ciò che desidera la oscura nazione nemica e sovvertitrice.

Durante la fase di crisi regna grande confusione nelle comunicazioni a ogni livello, ciò di ovvio e meccanico, che per decenni o secoli non ha mai necessitato di confronto, discussione, conflitto, adesso esacerba gli animi perfino di coloro che non si sarebbero mai occupati di politica. Le mani sono ormai lontane dalle leve che un tempo avrebbero potuto risolvere i problemi sul loro nascere: tutto ora è vacuo discorso.

L'uomo comune è confuso e diventa bersaglio di una campagna di propaganda ancora più dura e senza precedenti. Tutti sentono l'impellenza di schierarsi, di avere un'opinione, di esprimere un lamento, perché il bombardamento dei media è continuo e amplificato.

In questa fase, il comparto dei media è un braccio armato e traditore della nazione, e a ben vedere lo è ormai da anni.

I leader politici più giovani, cresciuti nella generazione che ha dato inconsapevolmente il via alla procedura di sovversione - essendo dal primo momento espressione di un moto caotico e libertario senza una vera struttura – non hanno le competenze e le conoscenze millenarie necessarie a comprendere la situazione in cui si sono cacciati. Saranno loro stessi costretti a mirabolanti capriole ideologiche, a tradire le proprie idee, invitando al tavolo di comando personaggi anziani, carismatici e forti, sperando che questi possano riportare la situazione sotto controllo.

Uno Stato, il suo popolo, la sua cultura e le sue religioni, non sono un giocattolo semplice. È semplicemente infantile pensare che una tale struttura possa essere passata di mano in mano - perfino durante le fasi democratiche più serene. Pochi immaginano che una collettività umana è molto più vicina e simile a una collettività animale o vegetale che altro. Le vere regole in gioco non hanno nulla di umano: si tratta di regole più ecologiche che altro.

La fase di crisi apre le porte anche a una parte del comparto militare interno, sovversivo anch'esso da sempre, e abilmente mimetizzatosi durante i periodi non sospetti di pace. C’è la possibilità che tale comparto militare sia al soldo della nazione sovvertitrice o che abbia sempre avuto mira sovversive proprie e spera semplicemente di prendere il potere. Quale delle due, per il popolo, non ha vera importanza.

Quando i meccanismi costituzionali, logistici, economici, energetici e sanitari sono sotto il controllo inderogabile di perfetti sconosciuti senza più alcun legame morale e stabile con l'anima della nazione, il Paese è infatti pronto per consegnarsi nelle mani della nazione estera sovvertitrice, che altro non farà che raccogliere un frutto maturo.

Tutto questo decennale percorso, nei termini più brevi delle arti marziali, si può tradurre così: i movimenti centrifughi e naturali di ogni corpo vivo, non vanno mai fermati con una forza contraria e contrastante, bensì - previsti se possibile – assecondati, accompagnati al loro naturale compimento, così che l'esagitato cada al tappeto da solo.

Questo è ciò che fa la nazione che voglia sovvertirne un'altra, senza l'utilizzo della forza militare. La condizione necessaria al successo è quella di sapersi concedere il tempo sovraumano e sovra-politico per attendere che un tale processo si compia nella sua naturalezza.

Tale super-potere si ritrova generalmente solo in nazioni monarchiche, dittatoriali, o pseudo tali: nazioni in cui il potere non è mai stato democratico, ma che perseguono il mantenimento del potere costi il tempo che costi.

Il pianeta Terra annovera oggi un terzo tipo di tal Nazione: la "multi-nazionale" è infatti una sorta di complesso post-monarchico, dittatoriale con chiarissimi piani per il proprio futuro al lungo termine. Essendo la multi-nazionale, per sua natura, sovranazionale è capace di calpestare e ignorare ogni tipo di confine politico e morale. Tutto ciò manca invece e per forza di cose alle democrazie e alle loro famiglie, che sono costrette al regime di provvisorietà che la libertà collettiva e caotica impone alle loro strutture.

L'unico modo per non essere sovvertiti è dunque, paradossalmente, quello di trovarsi in una monarchia, dittatoriale non democratica: una nazione in cui i moti centrifughi e peregrini siano censurati sin dal primo momento.

Le culture (generalmente occidentali) che invece si concedono il lusso di vivere secondo i dettami illusori della democrazia e della libertà, lo possono fare solo per brevi periodi storici. Lo insegna la storia e ce lo urla il momento storico attuale.


Alla domanda di un giornalista che chiedeva l'opinione di Vladimir Putin sulla "Cancel Culture" americana (Gennaio 2022), il presidente ha risposto quasi sorridendo: - Lasciamo fare agli Americani tutte le stramberie che vogliono. Qui da noi gli uomini sono uomini e le donne sono donne.

Da una tale (forse per qualcuno) irritante risposta si evince l’abisso tra America e Russia, tra Occidente e Oriente, si evince che il pugno eccitato dell'Occidente "colonialista" in preda ai suoi deliri di agitata libertà, sta per essere afferrato da uno o più immensi sovvertitori. Non è assurdo pensare che Russia e Cina, forse anche in competizione tra loro, vogliano sovvertire l'Occidente tutto attraverso un'operazione di demoralizzazione, destabilizzazione e capovolgimento che abbracci tutti i campi dell'opinione pubblica mondiale, impreparata e viziata da decenni di mollezze ed esperimenti del pensiero fatti a voce troppo alta.


E il Giappone?

Il Giappone è un Paese super-occidentale. Più occidentale dell'Occidente al quale si è ispirato per correggere i suoi pochi difetti orientali.

Per molti è l'America dell'Estremo Oriente, per altri (me compreso) è ciò che resta della Cina più mitica e saggia. E' senza dubbio un concentrato cristallizzato di antica bontà politica, moderno abbastanza senza le mostruosità delle moderna modernità.

Grazie alle sue dimensioni geografiche ridotte e alla sua insularità il Giappone può operare le proprie politiche interne come fosse un laboratorio protetto.

Il Giappone lo puoi bombardare, incenerire, allagare e sconquassare, gli farai solo danni materiali. La mente giapponese è invece sigillata e protetta dagli attacchi sovversivi.

Le Galapagos della mente collettiva umana.

In Giappone l’opinione personale è tabù, un vero e proprio pelo pubico. Questo pudore per l'opinione personale - non dissimile dal pudore per gli odori personali - è ciò che lo rende un sistema a prova di sovversione.

Se non puoi dire a qualcuno che puzza, non potrai mai aggredire e graffiare il suo cuore più morbido. Se non puoi criticare l'opinione personale di qualcuno, non potrai mai deviarne i comportamenti.

La morale giapponese contemporanea è varia e complessa, molto più di quella europea, e io credo sia così anche grazie alla struttura e alle caratteristiche uniche della lingua giapponese.

Il Giappone è poi di fatto da sempre una dittatura imperiale, poi medievale, poi industriale e corporativa, oggi mediatica, e soprattutto religiosa. Questa dittatura è tanto efficiente e interiore che non ha bisogno di dettare le sue volontà.

Per fortunati corsi storici questo stato di cose sembra essersi stabilizzato in una configurazione assolutamente funzionale agli obblighi interni ed esteri del Paese, e principalmente a quelli interni.

Quando il Giappone si è trovato di fronte alla possibilità di essere tecnicamente sovvertito da forze esterne ha usato la sua massima forza per respingere il primo attacco, nell'unico momento propizio e possibile, superato il quale salvi forse il tuo corpo ma non più l'anima. (Un istinto di conservazione o una finissima conoscenza delle dinamiche ecologiche del mondo?)

Non parlo ovviamente dell'operato della classe politica visibile, bensì di un establishment grigio-trasparente, simile a quello che esiste in tutti gli altri Paesi, ma che qui non è ancora sceso a veri compromessi.

In ultimo, la liquida poli-multi-religiosità che bagna tutto il Paese è la sua assicurazione sulla vita.

E da qui non mi va di raccontare null'altro più.
Alessandro Wm Mavilio
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Contro-informazione
Mi sono fortemente riscoperto essere contro ogni tipo di informazione; di essere proprio contro il concetto di informazione.

Le informazioni (e i relativi dati che le compongono) sono entità sopravvalutate e super-provvisorie.

Le percezioni dovrebbero regolare le nostre scelte individuali, soprattutto quelle che dovrebbero aiutarci nel governo del nostro corpo/dominio.

Dal momento in cui una percezione non è percepita ma viene anticipata da una informazione esterna, cioè da un dato non direttamente percepito e non direttamente processato dal nostro corpo, ci stiamo facendo una profonda violenza e stiamo imponendo una forte deviazione al nostro destino.

L'informazione è un dominio virtuale che dovrebbe tornare a interessare esclusivamente i calcolatori elettronici.

Del resto non deve stupire se oggigiorno chiunque sia convinto che le informazioni siano l'asset più importante da possedere e gestire. Questa tendenza è certamente il frutto di una manipolazione pubblicitaria, banalissima, operata dagli sfruttatori e traditori del movimento contro-culturale, coloro che poi hanno dismesso i loro maglioni di lana slabbrati e colorati per costruire gli attuali imperi dell'elettronica consumistica.

Come ebbe a dire Theodore Roszak (1933-2011), "se vuoi vendere una quantità impressionante di dispositivi elettronici devi convincere la gente che le informazioni siano tutto e che per poterle gestire hai bisogno di un aggeggio più intelligente di te".

A questo lanciatissimo treno banalmente consumistico si sono poi agganciati i comparti giornalistici e quelli della propaganda governativa - quegli stessi governi ai quali i figli dei fiori (prima psichedelici e poi solo elettronici) hanno rubato il primato della computeristica.


Anni 70.

- Generale, lo sa che con gli scarti del super-computer CIA che abbiamo approntato potremmo creare da subito anche dei micro-computer?

- Ragazzo, che ce ne facciamo di micro-computer? La CIA ne voleva uno enorme e ora finalmente lo abbiamo!

- Ma non dico mica crearli per voi.


Del resto, tornando alla originale vacuità delle informazioni, giova ricordare che le "vere idee", quelle che costituiscono piattaforme evolutive per la civiltà, sono spesso, quasi sempre, concetti privi di informazioni.

"Tutti gli uomini sono uguali davanti alla Legge"

"Il Tao veramente Tao non è il vero Tao"

"Non avrai altro Dio all'infuori di me"

e via elencando.


Appare chiaro che tali "piattaforme" sono nate e sono state adottate in seguito alla esperienza diretta di una o più condizioni problematiche, non sono certo il frutto di uno studio astratto che sia stato basato su dati raccolti da studiosi.

L'unica vera astrazione che mi pare di cogliere è che questi concetti fondanti sembrano abilmente tenersi lontani proprio dal dominio dei numeri e dunque da quello dei dati.


Credo sia molto difficile partorire "una vera idea" partendo da una collezione di dati o informazioni. Normalmente è un'idea che genera dati e informazioni, ma non viceversa. Quando ciò ci dovesse sembrare accadere, potremmo essere di fronte a un'idea fallace, o valida solo in un dominio limitatissimo, virtuale e/o temporaneo.

Una tale idea non diventerà piattaforma collettiva di civiltà.


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Appunto precedente


Il vento del mondo sta cambiando (è forse già cambiato) e con esso la direzione di tutte le bandiere.

Mi sembra lampante che ci si trovi tutti in una zona grigia, in quella zona fisica e temporale in cui tutto deve essere risistemato, ri-arrangiato, movimentato, traslato per funzionare in virtù della nuova direzione del vento.

Parlo certamente di un vento metafisico.

Uno dei primi grandi reset che ci attende è quello di ripensare, nella nostra ecologia quotidiana, cosa voglia dire vivere a cavallo dell’informazione galoppante.

Siamo certi di sapere, oggi, cosa significhi davvero per noi “informazione”?

Informazione come mera flautolenza della esperienza diretta.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Anateismo insulare e pacifico
La sensibilità sociale (e linguistica) giapponese si accomoda nel duo concettuale – e orizzontale - di “Uchi & Soto” (Dentro e Fuori / 内と外), in un certo senso di “Privato e Pubblico”.

Ciò avviene forse anche in altre culture, ma in quella giapponese tale suddivisione è facilmente apprezzabile nei comportamenti della vita quotidiana, nella argomentazione di qualunque concetto abbastanza mondano e si rappresenta, anche più in profondità, nella stessa struttura fondamentale della lingua.

Un simile e ampio duo concettuale – ma stavolta verticale, e ortogonale al precedente – è quello di “Kami & Shimo” (Superiore e Inferiore / 上と下).


La lingua giapponese si contraddistingue dalle altre per la massiccia presenza di “omofonie”, parole dalla pronuncia simile o identica ma dal significato spesso molto diverso. La disambiguazione dei concetti necessaria a significare e comunicare avviene però facilmente, generalmente grazie allo stesso contesto della comunicazione.


È però interessante notare, in tale contesto, come il termine “kami” (prima di trovare la propria comodità in una forma scritta) veicoli esclusivamente significati positivi, vantaggiosi o autorevoli, come per esempio:

direttore, gusto delizioso, fantastico, inclusivo, la carta(!), i capelli, e non in ultimo, Dio.

Tutti questi concetti sono accomunati dalla loro posizione “superiore” all’interno delle relative gerarchie di senso.


L’impostazione monoteistica degli Occidentali è evidentemente una semplificazione idealistica, forse per di fatto allontanare la presenza fisica di Dio dai fenomeni della vita quotidiana e relegarla in una posizione di diminuita potenza; oppure di potenza, si badi bene, ultra-terrena; nel senso che – se fosse il caso - l’incontro reale e fisico con Dio sarebbe meglio rimandarlo a dopo la nostra morte, su un piano diverso da quello attuale. Il fatto che in Occidente Dio sia immaginato - e spesso rappresentato - in maniera antropomorfa è poi a dir poco infantile.

Pur con tutte le semplificazioni che questo testo esige, posso ricordare a chi mi legge che in Giappone resistono lo Scintoismo (religione definibile di Stato), il Buddhismo e il Cristianesimo (religioni molto diffuse ma importate) e una pletora di altre religioni, sette e culti tanto radicati da lasciare sorpresi. Insomma, il Giappone si può dire “pluri-religioso e politeista” e lo stesso si può dire del giapponese, che spesso si concede a più culti, in sequenza o anche contemporaneamente.

Il salto da una religione all’altra avviene infatti frequentemente e con inaspettata superficialità. Esso può essere prevedibile (secondo l’analisi di criteri sociologici), può essere imprevedibile (dovuto alle vicissitudini uniche di un individuo), o può dar luogo a uno stazionamento promiscuo (sia all’interno di una ecologia religiosa individuale che familiare). Questo salto tra religioni può ricordare il salto contrattuale che molti di noi fanno balzando da un operatore telefonico a un altro. Si cambia operatore per avvicinarsi a un partner, per stanchezza, per risparmiare, per tagliare col passato, per accogliere un nuovo futuro, per status, oppure si decide di munirsi di diversi dispositivi (religiosi) anche solo per godere di maggior… ampiezza d’azione. Se le cittadinanze fossero prodotti liberamente acquistabili, un simile paragone potrebbe essere fatto con i passaporti.


Il Giappone è riuscito negli anni a farmi fare pace con il concetto di “Dio”, di divinità, di nume (tutelare), ecc.

Non solo non vi è alcun tabù sul discorso di Dio (anzi è forse esso un vero e puro totem?) ma nonostante questa tendenza allo “scambismo” in Giappone resiste un inaspettato rispetto per “Dio”. Mai paura, ma rispetto sì. Forse proprio perché è tale la multi-sfaccettatura del concetto e del termine che non si può mai sapere con sicurezza cosa significhi davvero per il nostro interlocutore, né in banali termini immaginifici che di profonda fede, e dunque conviene mantenere un rispettoso contegno quando si tocca l’argomento.


Mi è sembrato di notare che il termine “kami-sama” (Onorevole Divinità) venga normalmente usato per definire un’entità superiore, plurale e imprendibile.

Un banale detto quotidiano che è l’equivalente italiano de “il cliente ha sempre ragione” in giapponese è “O-kyaku-sama / Kami-sama”. Cioè, “il cliente è Dio”. Ma io renderei questo detto al plurale: “I clienti sono divinità”.

Sì, in una lingua che non si prende la briga di definire genere e numero, molti concetti e termini di un discorso restano ambigui. Ma se è vero, come dicono i Giapponesi, che c’è un Dio nel lavandino, uno in gabinetto, molti al Santuario giù alla strada, moltissimi che vengono a fare la spesa al Grande Magazzino, uno che occupa il Palazzo imperiale di Tokyo, un altro che è il nume tutelare della Cultura, ecc, ecc, allora possiamo affermare che, sia per numero che per luogo di occupazione, vi siano incalcolabili divinità, forse anche più di quanti siano i luoghi fisici da essi occupati o a essi consacrati.

Cos’hanno in comune queste Divinità? Beh, senza dubbio il fatto di essere tante, “superiori” e soprattutto invisibili a occhio nudo, ma tanto presenti e “reali” da indurci a modificare i nostri comportamenti sia in UCHI che SOTO, sia nell’intimità che nella società. Lasci il bagno sporco? Fai uno sgarbo al Dio del bagno. Sei rude con un cliente? Stessa cosa, potresti pagarne amare conseguenze. In ogni caso, le diramazioni delle nostre azioni eventualmente irrispettose possono danneggiare ciò che a tutti gli effetti in Giappone sembra essere un’ecologia condivisa, più che una fedina penale e personale, come in Occidente.

Dalla mia osservazione diretta sembra che sopra la testa di ogni essere umano in Giappone vi sia, in un impossibile equilibrio, una colonna pressoché infinita di divinità invisibili, alcune delle quali possono essere riconosciute come le stesse entità care alla scienza. Statistica, chimica, biologia, sono di fatto “Kami-sama”, cioè onorevoli e onorate entità superiori. Anche esse operano pluralmente e soprattutto invisibilmente, e cagionano evidenti danni (o vantaggi) all’essere terrestre che sia più o meno cosciente della loro intromissione al fenomeno - irrisolto e incompreso - della vita e della coscienza.

Similmente, è facilmente assimilabile al concetto di Dio, cioè di “onorevole entità superiore” anche lo stesso semplice concetto di religione. Lo Scintoismo, per citare la fede più ufficialmente vicina al sentire giapponese, e più indicata a comprendere i fattori fin qui esposti, non è forse (con le altre) un network di miti, luoghi, inservienti, riti ciclici che (proprio come chimica e biologia) intersecano le vicissitudini umane?


A questo riguardo, concludo con una storiella familiare realmente accadutami.

Mi è stato chiesto in famiglia di andare in banca e farmi cambiare 8.000 yen in banconote perfettamente nuove da 1.000 yen ciascuna. Ho chiesto il motivo di questa esigenza. Il motivo è che occorre fare un’offerta al Santuario di Hokkaido per una certa cerimonia. Così, per provocare, ho chiesto se non potessero andar bene lo stesso banconote qualunque, casualmente assortite, del resto i soldi sono soldi. La risposta è stata semplicemente:

“Dobbiamo dare 8.000 yen a Dio, è meglio che siano belle nuove, no?”

Ora, a quale Dio nella colonna sopra la nostra testa ci si riferiva? Al “direttore” del Santuario? Al suo sottoposto (ma a noi “superiore”) che dovesse fisicamente incamerare la busta col denaro? Al santuario? Alla divinità precisamente consacrata in quel santuario? Al principio religioso scintoista? Se è per ingraziarsi buona salute e fortuna, non sono forse anche statistica, biologia e chimica delle dimensioni tanto potenti e diffuse da poter essere inserite in questa stessa autorevole colonna divina? Al top del top – finanche incomunicabile – che è sopra tutta la catena?

Oh, sì, Dio esiste tanto.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Fumare e vaccinarsi
Chi si trova a essere fumatore oggi, si trova in una situazione alquanto imbarazzante: ha assistito, negli anni, all’inasprimento dei propri “parametri di utenza”.

Forse anche a ragion veduta, il fumo di sigaretta è stato lentamente e inesorabilmente scalciato via dalla quasi totalità dei luoghi pubblici: bar, ristoranti, treni e aerei, scuole, e via elencando. Tuttavia non è stato mai vietato severamente a monte, con una chiusura - totale e forse più benefica per la popolazione - dei rubinetti generali del fumo.

Il fumo è diviso da molti anni in passivo e attivo. Gli organi competenti hanno deciso di proteggere i non fumatori dal fumo passivo e di “punire” i fumatori attivi, lasciando che la vita diventasse più difficile per loro, che il loro vizio si rivelasse un calvario costoso e senza più il suo senso originario, che continuassero tutti a esporsi ai possibili rischi che il fumo impone alla loro salute.

Con la lotta al fumo lo Stato ha dunque deciso di porre in atto un comportamento protettivo solo per una delle due categorie, quella appunto dei non fumatori (o fumatori passivi), lasciando che i fumatori attivi restassero utenti e schiavi di un vizio che è comunque un “vizio statale”, giacché le sigarette sono state per anni (e in tutto il mondo) prodotte, caldeggiate, tassate, poi forse falsamente/furbamente tollerate, all’interno di un recinto di libertà destinato agli adulti, ma che spesso includeva anche i minori, e senza neanche dare troppo scandalo.

Non mi si fraintenda, so bene che fumare fa male, so bene che è giusto proteggere i minori e gli adulti che non desiderino subire il fumo passivamente, trovo semplicemente che lo Stato avrebbe potuto includere, nel suo stesso severo disegno antifumo, anche un piano per debellare totalmente il vizio dal suo territorio, semplicemente tarando la sua campagna salutista e parlando maturamente a quegli adulti, fumatori attivi, che statistiche alla mano desiderano tutti segretamente smettere di fumare.

Visto ciò che lo Stato è stato capace di fare in termini di campagne mediatiche e di limitazioni di libertà individuali, da fumatore schiavo e confuso che sono, avrei forse preferito che l’intero incubo totalitario anti-COVID fosse invece stato imposto con la stessa forza per sradicare il vizio del fumo dai corpi e dai territori sovrani, con un atto di severa autorità e con le scuse e i ritrattamenti che un genitore sincero farebbe a quei figli ai quali egli stesso ha causato un danno.

Ma è risaputo che lo Stato introita una quantità colossale di denaro dallo spaccio di tabacco (e alcol, sale, zucchero e altri ingredienti naturali, fondamentalmente nocivi per la salute eppure diffusissimi) e le cifre derivanti dalla tassazione sono così alte da essere forse impossibili da alienare dai conti di una nazione. Mi domando però dove finiscano davvero i soldi delle tasse sul fumo dopo che sono stati recepiti dallo Stato. Visto lo stato del comparto pubblico ospedaliero, il timore è che miliardi e miliardi di soldi nati dalle tasse rubate alle boccate tossiche dei fumatori siano finiti anch’essi in fumo, e non in fumo di sigaretta, bensì in un fumo numerico molto più… denso e impenetrabile. Tale sospetto è lecito, specialmente per un Paese come l’Italia.

Ma non è questo il punto del mio discorso. Esiste una estrema e squisita somiglianza tra essere un fumatore ed essere un vaccinato COVID. Entrambi i profili hanno deciso di assumersi un rischio, di mettere a rischio il naturale equilibrio farmacologico del proprio corpo in cambio principalmente di un valore virtuale da aggiungere alla propria vita sociale. Benché deprecabile, a me sembra che entrambi i profili siano alla ricerca di una sicurezza… emotiva.

Il fumatore forse fuma per vezzo, per rilassarsi o eccitarsi, per qualunque assurdo motivo egli possa giustificare un vizio dal quale segretamente e maturamente vorrebbe affrancarsi.

Il vaccinato COVID si sottopone a punture, ormai si è capito, più o meno ricorrenti e che forse diventeranno quadrimestrali. E se non saranno più punture, è facile immaginare che “la cura” diventerà uno sciroppetto, o una pillola o chissà quale altro dispositivo medico/vettore farmacologico.

Ricordiamo qui che la sigaretta statale è essa stessa da secoli null’altro che un “dispositivo per la somministrazione di nicotina”. I più osservatori avranno capito che gli Stati, sotto la bandiera della protezione della salute nazionale, portano avanti una feroce e falsa lotta al fumo (dunque alla combustione), ma non portano avanti una lotta alla nicotina in quanto principio attivo e assuefante.

Pur di non perdere la loro succulenta tassazione, molti Stati sono giunti a buoni accordi con le stesse multinazionali del tabacco per convertire la sigaretta classica in un dispositivo elettronico, simile ancora nel gesto e nella forma alla sigaretta classica, ma sempre basato sulla presenza dell’oro marrone nazionale, il tabacco. Comprensibilmente, le sigarette elettroniche a base di liquidi sembrano star perdendo posizione e favore in questa corsa mondiale alla rivoluzione del fumare.

Ad ogni modo, un fumatore sa bene quale sia la condizione psicologica di chi, pur non essendo un eroinomane, un tossico da marciapiede, uno scarto di società, e pur ricordando come la sigaretta fosse stata inizialmente e per molto tempo un simbolo di sofisticatezza e di emancipazione, scopre oggi di essere invece un membro inferiore della sua società, del proprio vizio ormai scorge solo il banale e basso ricatto farmacologico, ricatto che da sempre vede gli Stati in combutta con i suoi Monopoli o, peggio ancora, con quelli sovranazionali.

Il ricatto della sigaretta di tabacco (a questo punto che sia quella classica a combustione o quella più moderna a riscaldamento) comincia nel momento in cui un individuo accetta di inserire nel suo sistema (il corpo) il principio farmacologico additivo e non richiesto della nicotina. Il meccanismo assuefante della nicotina ben presto spingerà il malcapitato a ciclare e aumentare il proprio uso di sigarette o il proprio numero di boccate farmacologicamente arricchite. Una vecchia storia che forse è qui inutile approfondire.

Ma il non fumatore, o il fumatore che per sua fortuna ha smesso di fumare, sa o ricorda come effettivamente è entrato, volontariamente, nel circolo dei fumatori?

La risposta è semplice e scioccante se rivista alla luce dei tempi del COVID.

Il fumo di sigaretta era spinto, proposto, venduto, consigliato principalmente attraverso classiche campagne pubblicitarie esplicite, attraverso una propaganda narrativa, secondaria e più subdola, innestata all’interno di film e trasmissioni televisive, e non in ultimo attraverso lo sfoggio di sigarette (nella vita quotidiana) da parte degli utenti che più o meno incoscientemente ne erano forti testimonial. La sigaretta si presentava come un collante sociale, la promessa di un legame tra individui e gruppi per passare del tempo insieme – molto spesso le pause tra un segmento lavorativo e un altro.

Dunque, poiché oggigiorno la vita di un fumatore è meschina sotto ogni punto di vista, e poiché sembra davvero che la storia si ripeta, ricapitolando, quando si parla, genericamente, di una aggiunta farmacologica consigliata dallo Stato, e per la quale vi sia lo zampino e il guadagno galattico di industrie sovranazionali, quando questa “dose” è pubblicizzata con ogni mezzo, quando la sua assunzione - diventata argomento quotidiano – possa diventare (come già lo è) motivo di unione (o divisione insanabile) tra la popolazione, beh, fidatevi dei fumatori e della loro esperienza. Accettare la prima dose è qualcosa del quale ci si pentirà amaramente, soprattutto se si resta in vita ma relegati fino alla morte in un comparto della propria società del quale non si immaginava l’esistenza, quello dei coglioni, dei puzzolenti, dei drogati, e via elencando.

Chi tra i fumatori non è ancora morto, è oggi segregato e discriminato. Ma soprattutto è un individuo tradito, da un gesto fatto con leggerezza, generalmente nel periodo più ribelle della vita e che soprattutto era “main stream”.

Oggi i non vaccinati sono discriminati. Ma quando la violenta campagna propagandistica pro-vaccino, impostata sulla umana paura di morire finirà, la musica del vento cambierà e saranno i vaccinati, i dipendenti dal nuovo additivo, a passare per scellerati. Sempreché come i fumatori, avranno ancora un corpo a disposizione per pentirsi della leggerezza con cui quel giorno accettarono di provare – come i fumatori del secolo scorso – quel primo tiro adulto, dal pacchetto di un genitore, offerto dal migliore amico, subito nella corsia di un ospedale, o esalato dalle labbra di un dipendente pubblico, dal proprio beniamino in televisione, trovato irresistibile ed esotico sul grande schermo, stampato a colori sulle riviste più patinate e bugiarde.

Spacciato dallo Stato.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Il discorso più mancante
Sigmund | Game Over on Arcade VideoGame
Nonostante ci sia tantissimo da teorizzare, discuterne, e perfino - improvvidamente o sperimentalmente - culturalizzare, resto sempre più offeso dalla assordante mancanza di un discorso unificatore per i temi dell’umanità, del linguaggio, del sogno, e della morte.

Sono cosciente che questi macro-temi siano di immensa complessità, che non debba essere facile unificare tali temi nel concetto portatile e forse anche provvisorio di cui parlo e che desidero, ma per molti altre campi della scienza umana - molto più sfuggenti, complicati e distanti - le migliori menti si sono attivate, organizzate e industriate, e negli ultimi cento anni - e più che mai - hanno portato l’impresa umana a livelli inimmaginabili di speculazione concettuale e applicazione tecnologica per le loro piattaforme di pensiero.

Sono anche convinto che in tutte le culture più moderne del pianeta sia in atto, e ormai da secoli, una vera e propria politica di automatica e sottile censura, che sia attuato un meccanismo che evidentemente proibisce perfino di accennare ad alcuni dei temi menzionati, senza che si possa evitare di passare per illusi, delusi, o per qualcuno con la risibile tendenza a derapare… dai percorsi più consigliati e frequentati.

Se pur possa capire che un giovane nei suoi vent’anni non sia naturalmente attratto da un discorso lontano un’eternità dal suo tempo corrente, se pure capisca invece il mio crescente interesse per questo set di temi alla soglia dei cinquant’anni, proprio non capisco come sia possibile, specialmente per gli intellettuali più dotati e che ho ammirato, avanzare nell’età e costantemente rifuggire la questione, spesso con regolari tentativi di silenziare teorie e domande, sabotare quasi il dibattito.

Eppure abbiamo resoconti numerosi in varie culture più o meno mistiche del pianeta. Gli antichi erano senza dubbio interessati dalla traballante condizione della coscienza umana sulla Terra. Da quegli stessi antichi abbiamo preso a mani basse tante altre cose: stili artistici, teorie scientifiche per applicazioni più materialiste, visioni del mondo religiose più che altro per navigare a vista il quotidiano, ma il discorso sull’aldilà e sulla virtualità delle vita sembra non aver mai preso piede o gettato le basi per un percorso comunemente accettato dalla specie umana.

Giusto per amor di precisione, non computo in questo mio discorso la letteratura fantasy o la fantascienza in stile “Matrix” non foss’altro perché le intuizioni alla base di tali opere sono comunque rimaneggiamenti di intuizioni molto più antiche e hanno contribuito all’arricchimento dell’industria dell’intrattenimento più che a quello delle anime e di una solida consapevolezza del vivere dei Terrestri.

Curioso però, che nel Pantheon delle divinità più fantastiche, si accettino argomenti ugualmente invisibili, imprendibili, distanti e distaccati come cellule, molecole, atomi, particelle, o più semplicemente, tutte le sanzioni della gravità e della legge fisica per essa teorizzata (che sul suo piano di discussione teorico e universale pur mette d’accordo cattolici, islamici, buddhisti e molti altri credi religiosi) ma non si riesca a porre (anche con pesanti semplificazioni di comodo) la questione del linguaggio, della coscienza, del sogno e della morte su un simile piano extra-religioso ed extra-scientifico, per farne un concetto “portatile”, moderno, alla portata dell’uomo moderno, distratto e indaffarato, la piattaforma di lancio finale per poter assimilare soprattutto la società attuale che è ormai totalmente virtuale, e non solo nell’accezione informatica o tecnologica più facilmente immaginabile.

I macro-temi di “linguaggio, sogno e morte” sono comuni, condivisi, presenti e pressanti per tutti gli esseri viventi di questo pianeta, e dovrebbero a mio avviso eccitare le nostre menti più eccelse ben prima di un quark, o dello scoprire la composizione chimica di un astro lontano o dell’indagare temi sociologici di portata più infima, perché molto più provvisoria.

La scienza imperante rifugge chiaramente questa sfida e la suprema prova ne sono la totale mancanza di un percorso aperto al pubblico più vasto, la derisione o la censura che investe ogni nuovo tentativo di discussione, e il conseguente lasciare campo libero ai numerosi ciarlatani che occupano il sottobosco.

Mi rendo conto che io stesso potrei essere uno di essi, agli occhi di qualcuno.

Sono d’accordo che la scienza, quella seria, che basa ogni suo prezioso movimento su misurazioni possibili e calcoli sensati non possa lasciarsi impregnare da tale seme, ma esiste fino a prova contraria un’altra fazione scientifica, quella umanista e sociologica, che ne avrebbe di terreno da recuperare, per donare all’umanità un’inquadratura meno microscopica, meno clericale (per non andare in conflitto con il nulla di fatto dei colleghi religiosi), e almeno intavolare la premessa/promessa per un discorso stabile sul “come stare qui finché non dovremo andare lì”.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Teenage Mutant Ninja Turtles
In un universo/mondo che a velocità sempre più esponenziale crea, adatta, traduce, riutilizza, sfrutta ogni “segno” partorito, stampato e consegnato in ogni angolo del mondo per “infettare” a più non posso ogni altro angolo del mondo con rivoli e cascate di “senso” spesso imponderabili, e il fatto che invece alcune zone della “media-sfera” restino “asciutte”, o quanto meno dimostrino una repellenza di sorta, vorrà pur dire “qualcosa”.

Per prima cosa interroghiamoci su quanto l’ “impeto creativo” sul pianeta Terra fosse avanti già nel 1984 solo per aver partorito un concetto-prodotto (che ha fatto impazzire genitori e bambini) come le “Teenage Mutant Ninja Turtles”, e vi prego di notare la presenza di un termine giapponese fondamentale per il… brand. Questo per dire che al mondo non c’è evidentemente un vero limite al pensabile, dicibile e pubblicabile, soprattutto nell’ambito dell’intrattenimento. (E da allora l’impeto creativo terrestre è tanto veloce e assurdo da essere quasi fuor di percezione.)

Dopo l’esplosione delle TV satellitari, digitali, e dopo anche l’esplosione del video sul web, il mondo è pieno di canali che non fanno altro che esasperare questo processo di taglia e incolla, riciclando, riadattando e traducendo all’occorrenza stream di storie e immagini, pur di riempire i loro palinsesti e dare un senso al loro “appetito”.

Noi stessi abbiamo visto coi nostri e occhi e goduto – per portare un esempio comprensibile al nostro gruppo – l’esplosione dei cartoni animati giapponesi in Italia tra gli anni 70 e 80, e possiamo testimoniare come il fenomeno si sia allargato a macchia d’olio e quanto fosse agli occhi dell’epoca un assurdo fenomeno, culturalmente lontanissimo da noi, certamente arduo da adattare linguisticamente e culturalmente, e perfino malvisto dai nostri tutori e genitori… Eppure il Giappone non ha avuto problemi a esportare i suoi peggiori incubi nucleari o a vendere, proprio a noi, la sua versione di Pinocchio.

Ma tutto ciò funziona – secondo me – solo per quei prodotti “mediabili” che fanno parte del settore dell’intrattenimento. La “complessità della lingua giapponese” (che, insisto, è complessa solo per chi non ne ami il “codice” o la missione futura) non è certo il vero ostacolo alla mancanza di una versione speculare e multilingue dello stream di notizie dal Giappone.

Il vero ostacolo è a monte.

Il comparto dell’informazione ha il difetto genetico di pretendere freschezza e velocità di consegna. Che la lingua di partenza del nostro quotidiano “Zero” sia il giapponese o il francese, il solo fatto di dover “tradurre notizie” per fornire “il servizio” sarebbe un ostacolo e un affronto alla “missione quotidiana”, che nel caso di un giornale quotidiano, quotidiano non riuscirebbe a essere – nelle sue versioni tradotte. Chi ci prova comunque, finisce per dar vita a un servizio di “clipping” (mi pare si chiami) o a una antologia di notizie, forse meno fresche, e certamente selezionate. Per forza selezionate! Che senso avrebbe far tradurre - in ritardo e con costi inutili – quelle notizie che qualunque redattore intelligente sa benissimo non essere di nessun interesse per il mercato target “secondario”?

Dunque, solo per una questione tecnica, per una questione innata di comunicazione, io credo si possa affermare che non c’è dolo nel fatto che il Giappone, non abbia o fornisca versioni semplificate, rimescolate del suo stream quotidiano. Jeeg Robot fu una cosa, Banana Yoshimoto ne fu un’altra: le “notizie” sono tutt’altro “oggetto”, semplicisticamente: sono la versione in pigiama di un sé nazionale che – potendo evitare – non offriresti in visione al resto del mondo. (A tal riguardo e su un piano un po’ diverso, io mi auguro sempre che un qualunque talkshow italiano non giunga mai alle orecchie di un giapponese medio. Non gli servirebbe capire la lingua per rendersi conto della violenza vocale gratuita alla quale sono sottoposti i microfoni in studio! In quanto umani non facciamo una bella figura, e mi sto riferendo solo al “tono di voce” non ai “contenuti”. Dunque sì, può esistere un senso di vergogna per il settore comunicativo “domestico” di una cultura nazionale.)

Vi è poi il lato più oscuro della questione, quello per cui proprio le notizie e la rappresentazione forzatamente edulcorata che il concepire un testo, scriverlo, e farselo correggere per poterlo pubblicare, sia in ogni parte del mondo una questione ancora irrisolta di etica e onestà. Le notizie, oggi più che mai, sono l’oggetto linguistico più economico e inaffidabile che si possa scegliere per ricostruire l’immagine reale di una cultura. La sua economicità deriva soprattutto dal fatto che siano contenuti provvisori, destinati a scadere in poche ore. E non dovrei neanche scriverlo, ma è ovvio che nelle notizie si celi il morbo della propaganda e di ogni tipo di programmazione culturale necessaria a guidare opinioni e scelte dei popoli. E devo ricordare che tale “manopola”, tale timone, non si attua in ogni singola notizia, bensì nel ricorrente palinsesto che le ospita, nel network di sottofondo tra nodi testuali di una “testata”, nel suo ripetersi quotidiano e non in ultimo nella sua interfaccia grafica più generale. Cioè, la prima pagina di un dato giornale è strutturata in quel modo (sia per forma che per contenuti) per connettersi con il suo mercato culturale di riferimento e per operare l’update del firmware del lettore: qualcosa che trascende (ma sfrutta) i meccanismi ben diversi tra loro di “comunicazione e informazione”. In tal senso tutto il mondo è Paese, e non temo di passare per naif se aggiungo che i giornali siano da sempre un’arma da sempre a disposizione dei poteri politici in gioco forse a parte “la posta del cuore”. Ma poi chissà!

Discorso simile per la comunicazione televisiva. Un canale giapponese speculare ma perfettamente tradotto che giunga a occhi e orecchie degli italiani (o degli spagnoli, o degli anglofoni) non durerebbe una settimana. La struttura linguistica polimorfa della lingua giapponese, accoppiata alla sua incredibile ma bilanciata semplicità fonetica, sarebbe perfino presente in forma di “fantasma sintattico” ed esteso su tutto il palinsesto, cioè anche nelle pause, negli intervalli e nelle scelte estetiche (non per forza linguistiche!), sui in forma di colature sui lati del “contenitore generale” e forse anche in forma di “gas esausto”, come è chiamato in gergo.

Sicuramente, il sogno di una lingua giapponese tanto semplice da consentire versioni speculari e multilingue dei suoi stream quotidiani resta un bel sogno. L’intero “pacchetto” che compone un canale di comunicazione quotidiana resta un “pacchetto completo”, del quale siamo consci solo di una minima percentuale visibile dei moduli che lo compongono. E se l’ostacolo fosse la struttura linguistica del giapponese, non ci avrebbe raggiunto niente dal Giappone. Forse solo le stampe Ukiyo-e, leggere, trasportabili, fraintendibili, perfette per nutrire quell’ego Occidentale - analfabeta di base! - e che vede nell’alfabeto il vertice della sua esperienza linguistica.

La vera questione che io appunto solleverei, ma non vi invito ad aderirvi perché è una questione enorme e ormai fuor di possibilità di essere risolta collettivamente, è proprio quella della fede innata che l’Occidente ha dell’alfabeto. Dove è scritto che un sistema di scrittura tanto semplice sia la piattaforma di lancio perfetta per una data cultura e per le sue esigenze linguistiche e sociali? Se fosse per una sorta di ragionamento in stile rasoio di Occam (che io rifiuto a prescindere) per cui il sistema più “parsimonioso” è quello da preferire, allora non sarei d’accordo: 1) perché dalle lingue nascono quantomeno fenomeni sociali novelli e dunque “risparmiando a monte” avresti vicende umane “cheap”; 2) perché un tale ragionamento di parsimonia (grafica?) non dovrebbe valere per la matematica che invece si avvale di ogni segno possibile per esprimere le sue complesse necessità?

Conscio che tali argomenti di “balistica mediatica” siano comunque estesissimi e complessi, perfino al di là della questione giapponese del nostro gruppo, e oggi più che mai siano anche argomenti caldi su scala globale, e conscio che media e informazione siano le oscure sagrestie di poteri fortissimi attivi almeno da qualche secolo, mi sento di concludere solo con il mio solito complimento al sistema di scrittura giapponese.

1) Esso è in grado di compattare in molto meno spazio un articolo che in un giornale alfabetico prenderebbe molto più spazio e 2) il fatto che la lettura avvenga verticalmente consente di comporre pagine di giornale tali da essere lette “per settori verticali” e perfino in spazi ristretti, e non a braccia spalancate come invece è costretto a fare il lettore occidentale.

Se solo fossero questi gli unici due motivi per apprezzare la complessità tecnica del sistema di scrittura giapponese, a parità di risorse con una cultura alfabetica omologa, ci rendiamo conto di quanto “guadagno” abbiano procurato al Giappone in termini di:

1) risparmio di carta (uhm, no…)
2) forse, viceversa, maggior capacità di compattazione di concetti più complessi in spazi comunque ridotti (trafiletti, albi, libricini, ecc)
3) maggior lettura e circolazione di idee
4) lettura anche in spazi ristretti e condivisi (treni, tavolini minuscoli di caffè, ecc)
5) altro (pensateci voi :)

Tutta questa lettura è certamente concausa al fatto che il Giappone sia (ci piaccia o meno) il Paese più omologato del mondo.

Andatemi a trovare una donna che scrive il primo romanzo psicologico del mondo nell’anno 1000 e lo fa da una cultura per cui la scrittura è in un certo senso una… novità. Come si chiamava?

“Teenage Mutant Ninja Turtles”?

Non proprio! Ma l’impeto creativo che fece vedere la luce a “La Storia di Genji il Principe Splendente” fu certamente simile, e proprio grazie a quella complessa, plurale, “ce n’è per tutti donne comprese”, sistema di scrittura.

Ad ogni modo, pur volendo aprire il Giappone al mondo occidentale del III millennio, per fargli un servizio caritatevole, seppur non davvero richiesto, l’ultima cosa che farei è pugnalargli la lingua o amputargli il suo complesso sistema di scrittura che, guarda un po’, si è costruito da solo e coscientemente dopo millenni di pagine mai scritte.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
In che senso i Giapponesi sono “alieni”?
Tra il serio e il faceto ho spesso anche io detto che “i Giapponesi sono alieni”, e molte altre persone che ho incrociato nella mia lunga avventura giapponese (che ancora continua) hanno detto la stessa cosa, in tempi diversi e su sollecitazioni ambientali e culturali diverse. C’è chi lo dice per ammirazione e chi per sconforto.

Cosa si intende per “alieni”? Qualcosa di vicino a “marziani, extra-terrestri”? Forse sì. In un mondo la cui imbizzarrita modernità sembra minare ogni certezza storica e “di catalogo”, una tale opzione peregrina deve pur essere rispettata, del resto… Che ne possiamo sapere? Sappiamo davvero chi siamo e da dove veniamo?

Qualcuno pensa che i Giapponesi siano “alieni”, “fortemente alieni”, “più alieni” dei loro simili mongoloidi non solo a causa della loro cultura modulare e magnetica (nel senso del riconosciuto e spintissimo sincretismo che consente loro di accoppiare armonicamente moduli culturali “a loro alieni” in una piattaforma culturale navigabile, trasportabile ed esportabile) ma essi sono certamente coloro che meglio di altri incarnano, con le loro fattezze fisiche il canone cinematografico dell’alieno, dell’entità biologica extra-terrestre. Ovviamente è questa una semplificazione provocatoria, ma mi riferisco alla struttura ossea dei visi, agli occhi a mandorla, occhi, naso e bocca piccoli, corpo di forma tubolare (cito lo scrittore Tanizaki), proporzioni degli arti quel tanto diverse dalle altre razze, minore presenza di peluria, testa tendenzialmente un po’ più grande, insomma: un concentrato di neotenia superiore a quella che pur contraddistingue le altre razze umane.

Io anche penso che i Giapponesi siano “alieni” ma lo penso sotto un diverso punto di vista, che poi è lo stesso punto di vista dal quale aggredisco l’immenso e impraticabile discorso sugli UFO.

È mia convinzione che molti degli insuccessi concettuali ed inspiegabili dell’impresa umana siano dovuti non altro che a un errato glossario di partenza e a tutti gli errori a catena che tale glossario comporta nella stesura e condivisione dei ragionamenti e discorsi necessari a raggiungere un accordo comune tra dibattenti.

L’approccio moderno e occidentale ai grandi temi filosofici è spesso scientifico e si esprime in termini di materia, energie e processi fisici misurabili: dati, dati, dati. Quello orientale è invece tarato sulla percezione di mondi interni, di panorami più ideali, e perciò forse ambigui, e perciò forse anche meno provvisori di quelli d’Occidente.

Sempre con grande generalizzazione, mi piace proporre la visione per cui l’Occidente (che pur esiste in quanto entità) ami conquistare - e nel caso violare - nuovi spazi fisici mentre l’Oriente voglia preservare e navigare la dimensione del tempo (che ahinoi, pur sembra esistere) conservandone però l’indipendenza dalle dimensioni assegnate allo spazio. Non credo di sbagliare affermando che il concetto di continuum spazio-temporale quadri-dimensionale non sia altro che una capriola fatta cento anni fa e miracolosamente riuscita quando pochi si davano alle… capriole.

Dunque, la mia idea per resettare il glossario sul discorso degli UFO (e per tutte le implicazioni di politica interna e di eventuale eso-politica planetaria) è quello di rivedere l’acronimo E.T.

Fino a oggi questa sigla ha semplicemente significato “Extra-Terrestre” ma per me “E.T.” dovrebbe significare banalmente “Extra-Temporale”.

Forse il succo non cambia, del resto il tempo, fino a prova contraria lo percepiamo e misuriamo noi terrestri sulla Terra e già comincia a darci problemi quando ci muoviamo a velocità subsoniche: mi sapreste dire che senso avrebbe un discorso sul tempo qualora finalmente avessimo un incontro con l’equipaggio (ci auguriamo antropomorfo e benevolo) di una missione proveniente dalle Pleiadi? Nessuno. Perché per raggiungerci da lì, tale equipaggio avrebbe certamente dovuto annientare il concetto di tempo, ammesso che ne abbiano uno comparabile al nostro. Nessun senso, perché non sappiamo quanto “tempo” biologico è dato a loro disposizione per concludere la parabola di una vita media, e pur sapendolo la risposta potrebbe obliterare i nostri canoni assunti. Nessun senso, perché non sapremmo neanche quanto e se la loro cultura integri il tempo nella riflessione di sé. E via discorrendo.

Dunque, se il Tempo è davvero una dimensione così relativa, diafana, virtuale, forse anche inesistente, personalmente non mi sorprendono quelle culture (terrestri) che cercano di proteggere tale dimensione magari facendo di tutto per non farla aderire a quella di altre culture che hanno invece legato il Tempo allo Spazio per comodità di calcolo, ma non per agio del vivere. Se la tua cultura di appartenenza lega il tempo allo spazio ecco che non puoi più girare per strada, a Napoli, vestita in abiti tradizionali campani (che pure sono esistiti), magari per andare all’università, senza suscitare ilarità ed epiteti. Ecco che hai mandato al macero una enorme fetta di libertà individuale, di identità collettiva e di educazione al rispetto della reciprocità.

Esistono diverse culture sulla Terra che si ostinano a vivere nel passato, che magari rifiutano la modernità o che rifiutano perfino i contatti con il mondo moderno, penso all’Amazzonia o all’isola di Sentinel. Ci hanno insegnato a catalogare queste culture come tribali, arretrate, in un certo senso sub-umane, forse – anche se mai detto – animalesche. Del resto uno di noi non potrebbe abbracciare una tale cultura senza morire di qualche malattia (o causarne!) oppure senza impazzire, lontano da secoli di modernità. Eppure qualcosa di bonario in noi ci dice che è giusto preservare tali culture… Che è semplicemente bello che esistano e resistano. Del resto che noia ci danno?

Il Giappone è secondo me un esempio ancora più unico di cultura extra-temporale. Non ci si lasci ingannare dal fatto che è esso stesso da più di cento anni in preda a una scalata tecnologica, che abbia voluto ostentare i suoi muscoli quando l’Occidente macho ed energico (e in cerca di spazi da violare) lo ha più volte portato ad aprirsi, che abbia apprezzato l’esistenza degli archibugi di Tanegashima, il Cristianesimo e la scienza moderna, di fatto, troppo poco tempo è passato per farne un nostro omologo. Il Giappone conserva e modifica a piacimento il suo calendario, insiste nell’erogare “Ere imperiali” (scrivo dall’epoca Reiwa III), mantiene il FAX negli uffici, colleziona religioni, è nel termine più semplice: “anacronistico”. Noi significhiamo “arretrato, in ritardo” ma può essere anche inteso come “che ritorna al tempo”, che appunto non abbandona e non tradisce la dimensione del tempo.

Se la mia teoria sulla sua extra-temporalità è esatta, e se nel “codice civile segreto” del Giappone è davvero incisa l’inviolabilità del divino Santuario del Tempo, potranno passare anche secoli o millenni, esso sarà sempre una eccezione sulla faccia di questo pianeta.

Chi frequenta o vive il Giappone, dovrebbe sapere di stare sperimentando una condizione unica sul pianeta. Magari si può dire oggi con precisione GPS dove ci si trovi ma vogliamo ammettere il felice stordimento di poter scorrazzare quotidianamente tra il 10.000 a.C. e il 2050 d.C.?

Io sono persuaso che chiunque impari a vivere proprio in Giappone, ad apprezzare le sue cime e i suoi sprint e perdonare le sue valli oscure e i suoi abissi, sarà pronto a navigare verso qualunque orizzonte si prospetti all’umanità, sarà addirittura preparato a ogni tipo di viraggio post-umano.

Restando sul tema spaziale, e affermo anche ciò con un… serio sorriso, è mia convinzione che se mai si dovrà abbandonare il pianeta, in termini di navicelle che vengono mandate nello spazio con il loro carico umano, gli unici a non fare una piega e a saperlo fare saranno i Giapponesi, perché è qualcosa che fanno quotidianamente, dal tatami di paglia di mille anni fa ai sedili di un treno - che “un vero treno” non è.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Il costrutto linguistico
Il contesto dei linguaggi, della loro evoluzione e della loro potenziale futura evoluzione…

E ciò è un gran mistero per me, perché sebbene abbia io stesso un retro-pensiero di indole scientifica, e abbia forse anche una eccessiva aspettativa sulla scienza, la mia… fede in qualcosa e forse anche la mia esperienza di vita mi portano a supporre che il mondo non sia – come ci viene detto – un costrutto spazio-temporale, fatto di materia ed energia, a ben vedere anche inadeguate, ma sia bensì un costrutto linguistico, più vicino alla natura di una frase, o di una novella o di un’opera d’arte, e ben lontana dal modello meccanicistico governato da leggi interconnesse, dal modello che ereditiamo da secoli e secoli di riduzionismo razionale…

Io sono convinto che a ben vedere il mondo si comporti proprio, solo e sempre, come la scienza dice che dovrebbe, e noi limitiamo la nostra partecipazione a esso attraverso l’accettazione di informazioni che provengono da una grande distanza, proprio come accade quando leggiamo un quotidiano al mattino: nessun miracolo accadrà mentre siamo assorti a leggere il giornale, e anzi durante la lettura e l’assorbimento di nozioni necessariamente estranee a noi, contemporaneamente avviene anche la programmazione culturale per la nostra giornata: se c’è qualche interruttore fuori posto in noi, ecco che la lettura del giornale rimette a posto tutti i valori culturali che magari durante la notte si sono affievoliti.

Ma quando invece ci si ritira in ciò che è chiamata “la primazia delle esperienze non-mediate”, le regole, i modelli normalmente passatici dalla scienza o dal senso comune, si rivelano completamente inadeguati, e per sperimentare ciò basta solo porsi in un periodo di solitudine e raccoglimento, magari nella natura, oppure lo possiamo sperimentare quando attraversiamo un periodo veramente difficile o quando ci troviamo in circostanze inaspettatamente aliene… ed è poi come se una specie di membrana, normalmente posta tra l’ego e… qualche altra cosa – che possiamo chiamare angelo custode, inconscio jungiano, dimensione superiore – e beh, questa membrana metaforica si assottiglia, il mondo ci sembra perdere la sua… mondanità, e oggetti normalmente percepiti da noi come appunto “mondani” sembrano caricarsi di energia psichica anch’essi, diventano vettori di inaspettato significato…

A un livello più basso di questa questione, questo fenomeno non è nulla di particolarmente eclatante, è una generalizzata apertura del mondo a noi, e viceversa; è come se tutto si rivelasse per ciò che è: sempre e normalmente imbevuto di significato. Quell’albero, quella persona, il suo cordiale saluto, quella conversazione, tutto è intriso di un debito di significato da restituire...

Ma questo fenomeno può, in un certo senso, anche aggravarsi, quando si scende a livelli più profondi di introspezione e di indagine della nostra relazione con l’esteriore: questa generale “significanza”, che fino a poco fa ci sembrava ammiccare da tutte le cose può concrescere, condensarsi, e simultaneamente il mondo può sembrare come dissolversi in un’unica corale intelligenza animata.

A questo punto, se calarsi a un tale livello non è stata una scelta cosciente, chiunque sarebbe molto preoccupato per la propria salute mentale. E se non lo siamo per conto nostro, lo saranno per noi i nostri amici, perché la nostra realtà ora è “aumentata”, e noi esclamiamo estatici che i fiumi ci parlano, gli alberi ci sussurrano…

Ciò che accade è proprio appunto il recupero del significato, preminente e pregnante in Natura ma che noi per qualche motivo blocchiamo, ma è un significato così loquace da articolare i suoi messaggi perfino nella nostra lingua. Ma poi accade che rocce o alberi parlanti vengano definiti “patologie”, in un gergo tecnico, qualcosa come: “paziente dall’ego gravemente ridotto, a rischio di totale sottomissione a opera di materiale disorganizzato dell’inconscio”… O qualcosa del genere…

Ma ciò che accade veramente è che chi sta avendo una simile esperienza, sta magari per la prima volta nella sua vita incontrando il forte significato residente la realtà, senza il costante compromesso e il pressante condizionamento culturali che normalmente negano e sanzionano questo Significato.




Riadattamento di un discorso di Terence McKenna.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Grattare il soffitto

2021-05-21
Nei rari momenti di calma interiore vengo sopraffatto da una sensazione ben distinta di "piùchecompletezza".

Sono un insoddisfatto per indole e posa, e dunque questa sensazione, che pur conosco bene, tendo sempre a respingerla come assurda. inutile, dannosa: non si può essere completi, mi dico, non alla mia età e non in questo mondo dedito all'accumulo.

Eppure... In quasi ogni ambito della mia vita, non mi sembra più esserci lo spazio per nulla di fisico o ideale.

Mi libererei con piacere di molti oggetti che sono rimasti attaccati ai miei spazi vitali, fatemelo dire, di molte persone, anche, ma soprattutto di idee maltempate, che ciclicamente disturbano il mio campo morale.

Non che questa sensazione di completezza preluda alla volontà di lasciarsi davvero andare o rinunciare ad alcunché, anzi, ma certamente è il segnale inequivocabile per quantomeno non cercare di stipare l'impossibile in quella che sembra essere una valigia già zeppa di esperienze e conoscenze.

Del resto, 47 anni sul pianeta sono una buona età per ammettere di essere abbastanza adulti e formati, anche se sulla bontà di questa maturità e di questa formazione non sarò io a pronunciarmi. Ma avendo quasi cinquant'anni (nel XXI secolo!) si può dire di aver accumulato abbastanza provviste - di esperienza e conoscenza - per poter almeno provare il volo sulla vita senza più l'ossessione del carburante, il volo sulla vita con l'agio, stavolta, di una naturale portanza e - mi auguro - l'agio di una lunga planata, densa di ghirigori, indolenti e panoramici.
Alessandro Wm Mavilio
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Ipotesi su - Il dono di Natale - di Grazia Deledda
Ho letto il racconto è il finale è effettivamente un “mistero”. Non conosco “il meta-mondo” di Deledda ma secondo il racconto è scritto proprio e volutamente in maniera “cifrata”.

Ho cercato una spiegazione semplice al “dono” - come descritto nell'ultimo paragrafo - ma non l’ho trovata… Quindi devo per forza interpretare a modo mio.

Nel racconto, in casa Lobina, compaiono diversi tipi di doni: il “porchetto tinto di rosso (sangue)”, una moneta d’oro e del cibo (carne e vino) che la madre di Felle prepara per il marito morto.

Nella famiglia Lobina (quella di Felle) sono tutti figli maschi e c’è una sola sorella che presto lascerà la casa perché si fidanza. La stessa sorella di Felle in realtà è un “dono” proprio perché si fidanza e presto andrà in sposa, via di casa… È appunto un dono “in uscita”…

Nella casa dei vicini “più poveri” abbiamo una situazione inversa. Il padre è ancora vivo, la madre ha appena partorito (ed è proprio la notte di Natale) e ha dato alla luce il primo figlio maschio. Sicuramente, nella mentalità dell’epoca, l’arrivo di un figlio maschio era considerato “un dono di Dio”.

È interessante notare che il neonato è descritto come “un bel bambino rosso”. Non sappiamo se: perché “akachan” o perché “akage”! eheh Ma è “rosso” come il “porchetto” dei Lobina. Forse ci sono anche altre coincidenze di significato e colore… Ma lasciamo perdere!

L’ultima parte del racconto è scritta quindi in modo volutamente cifrato: シャッフル, per mischiare le carte e confondere.

Per il dono ci sono solo due possibilità immediate – ma Deledda le fonde insieme in un unico concetto/rivelazione.

1) Il bambino è certamente un dono di Dio - ma di certo il padre non lo ho comprato! Quindi è una specie di dono…

2) Il canestro (cioè la culla) anche può essere “il dono” perché il padre lo ha comprato e lo ha portato a casa proprio la notte di Natale. Ma è un dono relativo, poco significativo, che non può reggere il finale del racconto!

Poiché tutto il racconto è scritto per essere letto e goduto sia dai bambini che dagli adulti, secondo me il finale è volutamente bivalente e quindi il dono è contemporaneamente (e superficialmente) sia il figlio che il canestro.

Gli adulti capiscono che il figlio è un dono (del Padreterno) e i bambini capiscono che il canestro è il dono del padre povero.

Ma c’è ancora un mistero, la parte in cui Deledda confonde le carte:

“Mio padre l'ha comprato (IL CANESTRO?) a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il "Gloria" (cioè, etimologicamente: NOME > FAMA > FAMIGLIA). Le sue ossa (OSSA DI CHI???), non si disgiungeranno mai, ed egli (CHI? IL NEONATO? IL PADRE? GESU’?) le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.”

Questo finale è come quello di un pittore che a dipinto compiuto prende a coltellate la tela!! Pura confusione! Ovviamente è un artificio stilistico per rendere il racconto davvero prezioso.

Quindi “il dono” non è quello di Felle ai vicini (la zampa di porchetto rosso), non è quello della madre povera alla sua famiglia (il bambino rosso), non è quello del Padre povero al suo primo maschietto (la culla/canestro).

Secondo me, “il dono di Gesù” (cioè di Dio) non è nemmeno “il bambino” in sé, bensì:

la possibilità per cui (secondo la mentalità dell’epoca in campagna) un figlio maschio rende la FAMIGLIA forte (“ossa che non si disgiungono”) e virtualmente immortale (“Giorno del Giudizio Universale, metafora cristiana per ∞”).
Alessandro Wm Mavilio
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Opinione divisoria tra vita e morte
Non è ancora possibile (e forse non lo sarà mai) dimostrare che le NDE siano la prova dell’esistenza della vita dopo la morte.

Ciò è comprensibile. La logica a nostra disposizione nel sciogliere le questioni metafisiche è senz’altro limitata.

Tuttavia: il rimbalzo logico che si registra quando si indaga una questione impenetrabile, e che ci impedisce di accedere a un nuovo dominio da esplorare, è anch’esso degno di attenzione.

Il rimbalzo è esso stesso prova di qualcosa.
L’impossibilità di provare che esista una vita dopo la morte pone in estremo dubbio la realtà stessa della vita prima della morte.

Probabilmente e specularmente, potrebbe essere impossibile a un defunto provare ai suoi compagni anch’essi defunti di aver vissuto una certa vita sul pianeta Terra. Sento già le voci deprimenti che dicono: - ti sei sognato tutto.

Il problema potrebbe essere solo quello di un’opinione inspiegabilmente diffusa e fuorviante.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Statische Tänze
Vi è un frequente equivoco nel modo in cui si intende la vita, sia individualmente che collettivamente.

Probabilmente a causa di un improvvido "bagno di fissatura" che tutti abbiamo subito in Occidente dal '600 in poi, tutti noi tendiamo a credere che il mondo sia per certi versi statico, poiché meccanico.

Sì, non ci è dato di vedere a occhio nudo quanto persino le piante si muovano, quanto i bambini crescano momento per momento, quanto le nostre città cambino; e ciò è senz'altro dovuto al fatto che il nostro orologio interno sia curiosamente regolato per non farci percepire che il mondo statico lì fuori è in realtà selvaggiamente dinamico.

Il fatto che il mondo sia percepito come statico, poiché meccanico, è un altro enorme equivoco. La meccanica di per sé sottintende infatti un dinamismo, ma direi un dinamismo circolare, ripetitivo, una motorizzazione di sorta.

Allora spesso ci si convince che il mondo è sì dinamico, poiché meccanico, e uno degli esempi più superiori e chiari è proprio il moto millenario osservabile nell'alto inarrivabile dei cieli. Pianeti e satelliti che orbitano semi-circolarmente nel più sacro degli spazi, il Cosmo.

Ma ancora non ci siamo. La realtà più banale, diffusa, e finanche superiore a quella del cosmo - e che pur si esplicita ma sempre restando invisibile a noi - a partire dal più lontano dei pianeti fino al più modesto dei vermiciattoli sulla Terra, non è certo nella staticità o nella meccanica eterna e circolare dei fenomeni, bensì nel loro meta-morfismo.

No, il mondo non è statico e non è neanche dinamico o meccanico.

La prossima volta che pensiamo a qualcosa di lontano o vicino, di odioso o caro, di pubblico o privato, di minerale, animale, umano o meta-socio-tecnologico, restituiamogli il suo diritto originale alla metamorfosi.
Alessandro Wm Mavilio
- Quaderno -
Metàfore
La metafora è un potentissimo mezzo per proiettare e indicare qualcosa. Ma resta un esercizio sterile e impotente finché non riusciremo a congiungerla con l'altra sua metà che si ostina a risiedere nel dominio dell'indicibile.
Alessandro Wm Mavilio
Orientalista, scrittore e ricercatore indipendente, Alessandro Mavilio ha insegnato all'Università Industriale di Kyoto. Attualmente vive in Hokkaido.
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