BINDER
T.O.C.
Epigramma
Torre Caracciolo
Palazzo Corigliano
Capodichino
Shirogane
Alicudi
Sull'autore
Alessandro Wm Mavilio
Anni Novanta
Un'escursione profondamente autobiografica - forse l'ultima - nel decennio della massima libertà.
Colophon
Alessandro Wm Mavilio
Anni Novanta
2022-NNNVNT-IT
MAVILIO
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Crediti Copertina: Daniel Schludi
BINDER © 2022 - 2025
Semantix.media Corp.
Sapporo, Japan
Indice
Epigramma
Torre Caracciolo
Palazzo Corigliano
Capodichino
Shirogane
Alicudi
Sull'autore
Epigramma
Stay tonight
We'll watch the full moon rising
Hold on tight
The sky is breaking
I don't ever want to be alone
With all my darkest dreaming
Hold me close
The sky is breaking
I don't ever want to be alone
With all my darkest dreaming
Hold me close
The sky is breaking
Darkest Dreaming
David Sylvian
Alessandro Wm Mavilio
- Anni Novanta -
Torre Caracciolo
Napoli
1990
Sono in piedi sul versante Ovest dei Camaldoli. È una giornata di una limpidezza unica, che certamente non dimenticherò. Un anziano del posto ha detto che da qui si vedono Procida, Ischia e la Spagna. La Spagna non la vedo certamente ma è tale la visibilità che da dove mi trovo posso vedere distintamente il promontorio del Circeo, verso Nord. La linea dell’orizzonte è nettissima. Il sole si appresta a tramontare ma la notte, oggi, arriverà tardi. Da qui il mare luccica d’oro vero.
Poi noto un aereo in volo. L’Elba e Ponza alle spalle. Sotto alla pancia: il Tirreno gli scorre veloce; il mare increspato come un vetro smerigliato blu intenso, di tanto in tanto puntini bianchi, barche e navi, scie di spuma.
La fusoliera di questo aereo scintilla, illuminata dal sole ormai già dietro l’orizzonte. Ora è sulla verticale di Ischia, ed ecco che sembra scomparire alla mia vista. Poi accende un potente faro e torna visibile, e sembra come essersi fermato a mezz’aria, perché ora punta proprio verso di me.
Sfilava spedito quando visto lateralmente e mo’ sembra non avvicinarsi mai… Sarà bene su Procida, ora; Bacoli, Capo Miseno. Ora è certamente sugli Astroni, finalmente è vicino e sembra doppiarmi, e io continuo a seguirlo voltando lentissimamente il mio corpo verso sinistra. Chissà chi sta tornando a Napoli proprio oggi. O chissà chi ci sta arrivando per la prima volta.
È una serata gloriosa. Questa luce, questa visibilità, l’aria fina hanno sorpreso perfino gli anziani di Torre Caracciolo. Una tale condizione atmosferica, così estrema, spinta, celestiale, forse non si aveva da almeno cent’anni.
Ha acceso altri due fari alari. E ora plana baciando il Vomero, quest’aereo – l’Arenella, Materdei – si abbassa sempre più con andatura sapiente ed elegante, e con delicatissimi cenni, come di assenso, alza e abbassa il suo muso per regolare la sua discesa – Rione Stella e i Ponti Rossi – e infine tocca la terra di Capodichino.
Poi nulla più, silenzio. E dopo un po’, perfino lontano dove sono ora, mi raggiunge il ruggito del suo freno-motore alla massima potenza, forse trasportato dal vento e forse amplificato dalla mancanza totale di umidità nell’aria. Ora so con certezza che quell’aereo procede a passo d’uomo verso l’aerostazione.
Immagino che tutta Napoli sia ferma e in visibilio a godersi questo tramonto. Ogni napoletano è certamente imbambolato a fissare un punto qualunque davanti a sé: alla bellezza di sempre si è aggiunto questo crepuscolo miracoloso. Tutta la città è dunque preda di questa cappa di luce platino, tutta la frenesia di sempre è adesso certamente impedita. Ecco da dove viene questo silenzio irreale, come se tutta l’umanità fosse sospesa.
Ai miei piedi c’è di nuovo Quarto. Vedo il convoglio di una Cumana che sfila verso il mare. Seguo le lucine dei suoi fanalini rossi e per un istante mi intrufolo con la mente su quel treno, fino a che non scompare, infilandosi sotto un altro terrapieno ferroviario e, che tempismo, sullo stesso terrapieno, da sinistra, sfreccia verso Roma un Pendolino grigio e blu, certamente partito da Mergellina.
Salto con la mente anche su quest’altro treno e vado verso Roma, e quando riapro gli occhi, alla mia destra, trovo Marco, anche lui in piedi e ancora ansimante.
I due amici di infanzia Massimo e Marco sono venuti a trovare me e mio fratello qui a Torre Caracciolo. E oggi abbiamo fatto una pazzia. Dalla nostra casa, senza pensarci su troppo, abbiamo cominciato a scendere per il versante Ovest dei Camaldoli, come in preda a una impellenza sconosciuta. Abbiamo fatto simili scorribande da bambini, ma nelle terre a ridosso di Villa Marsiglia, al Vomero Alto. Poca cosa.
Stavolta abbiamo dapprima superato silenziosamente il tranquillo maneggio che è sotto casa, poi siamo passati per alcuni campi coltivati a terrazza, poi ancora il gruppo ha ingaggiato una specie di competizione di velocità, a chi di noi scendeva più velocemente e con maggior agilità.
In men che non si dica, ci siamo trovati a calpestare terreni sempre meno curati o conosciuti. Le terrazze scomparivano sotto i nostri piedi per diventare pareti montane sempre più ripide e verticali.
Scendere i Camaldoli è stato un gioco da ragazzi, certamente pericoloso. I primi salti, piccoli e accorti, si sono presto trasformati in salti di ampiezza circense, fatti con un coraggio a noi stesso sconosciuto. Abbiamo raggiunto in pochi minuti quella stessa Quarto che ora è nuovamente sotto di noi, e che vorrebbe luccicare nella notte. Ma che ancora non può, a causa di questo lungo tramonto abbagliante.
Risalire la collina è stato invece un incubo. Ad un certo punto la parete era così scoscesa, e la vegetazione così fitta, che io stavo quasi per demordere: non c’era più modo per me di vincere la forza di gravità e raggiungere gli altri tre compagni che mi incitavano dall’alto. Perché loro ce l’hanno fatta? Poi ho capito: erano semplicemente passati prima di me e il loro passaggio aveva modificato la forma della parete, friabile; aveva esaurito il numero di appigli disponibili all’ultimo del gruppo.
Mi sono immaginato a restare lì, da solo per la notte, mentre gli altri risalivano faticosamente per chiedere aiuto. Sono ancora appeso alla radice di un albero, sottile come un lungo dito indice, che fuoriesce dalla parete di terreno compresso e ho la netta impressione che questo dito di legno sia la mia unica possibilità per tirarmi fuori da questo impaccio.
Mi lascio andare e ripiombo con i piedi per terra. Mi volto e dietro di mi vedo qualcosa.
È una pianta. Sembra una felce ma è enorme. Sembra come comparsa all’improvviso. Occupa il centro di questo strano spazio, ed è bellissima. Mi ci avvicino e mi rendo conto che le sue dimensioni non sembrano appartenere a quest’epoca. Le sue sono dimensioni di ordine preistorico, quando la Natura era tutta almeno dieci volte più grande. Tutto di questa pianta è fuori scala. Il suo diametro circolare arriva a coprire l’area che coprirebbero tre o quattro automobili… È un’esplosione radiale di grandi foglie che come lunghe lingue cercano qualcosa aprendosi verso l’esterno.
No, forse non è una felce perché quando ne tocco il fogliame mi sembra di toccare una vera e propria epidermide vellutata. Al tatto sembra addirittura imperlata di sudore. Non mi stupirei a sapermi di fronte all’unica pianta carnivora mediterranea rimasta nascosta per millenni, e di esserne forse a breve la prima vittima umana dopo tanto tempo trascorso a cibarsi di animaletti di collina.
Ammetto di provare una paura irrazionale e questa basta a farmi tornare a quel dito indice di legno e penzolante che esce dalla parete terrosa. Con un'unica mossa abile e fortunata alleggerisco il mio corpo, do un colpo di reni e riesco anche io risalire dove sono i miei compagni, un paio di metri più in alto. Tutta la parete di terreno crolla sotto al mio passaggio e Marco e Massimo mi tirano in salvo, mentre mio fratello osserva.
Ora siamo tutti e quattro, nuovamente al sicuro sotto casa, ubriachi di terra, ma la visuale del Tirreno dall’alto continua a mozzare il nostro fiato.
- Sì, quello è per forza il Circeo ma si vedono anche Ponza e Ventotene, apparire come un tutt’uno!
Poi mio fratello chiede ai due amici, fraterni e fratelli, notizie da via San Giacomo de’ Capri. – Allora, che si dice a Santiaculo?
- Niente, risponde Marco. È solo morta Nannina la bottegaia. Non hanno perso tempo a rinnovare il suo basso per affittarlo.
- Alessa’, e tu? Ti stavamo perdendo poco fa! Stavi per andare in panico, eh?
- Lasciamo perdere, ragazzi. – Rispondo, celando più che altro imbarazzo… Sono del resto il più piccolo di questo gruppo, e aggiungo – Ma come vi è venuto in mente di scendere giù per la montagna? Voi siete pazzi.
- Noi siamo gente di collina! Se lo abbiamo fatto è perché abbiamo avuto una specie di chiamata, no? – Fa Massimo, che è il più grande del gruppo, studente di architettura e nato alla fine degli anni Sessanta. – Non l’hai sentita la chiamata?
- Beh, sì… Se no non sarei sceso…
- Lo vedi? Ogni tanto si deve fare qualche pazzia per ricongiungersi con il proprio lato più selvaggio.
Mentre gli altri parlano io mi ritrovo ancora in un volo di fantasia. Un volo radente sugli alberi dei Camaldoli, sui tetti delle casaccie abusive della zona, e in linea retta, col vento che mi sbatte sulle guance, sfioro il vecchio grattacielo del Nuovo Policlinico, vedo lo Stadio Collana dall’alto, il Castel Sant’Elmo a destra e subito davanti a me Spaccanapoli, con in fondo il fascio enorme di binari della Stazione Centrale, il mare e il Vesuvio. Ma il mio faro è il tetto verde della Chiesa di Santa Chiara…
- Perché da lì, a due passi, c’è Palazzo Corigliano, la mia nuova casa!
- Esagerato! La mia nuova casa! Comunque voi Mavilio siete proprio degli atteggiati! “Io abito a Torre Caracciolo, io vivo a Palazzo Corigliano”.
- Scemo! È colpa mia se questi sono i nomi dei posti che frequentiamo?
- Si vabbè, comunque venite anche voi da Santiaculo, se è per questo.
- Veramente noi Mavilio nasciamo a Posillipo. “Pusilleco addiruso”. – Interviene mio fratello – Santiaculo è stata una tappa, per quanto duratura!
- Ma perché voi pensate davvero che Santiaculo sia in qualche misura un luogo minore? Cos’è un complesso di inferiorità tra colline? Le colline sono colline!
- Le colline saranno colline ma non sono tutte uguali. I Camaldoli sono più alti di Santiaculo. – sbotto io! – Fanno quasi 600 metri!
- Alessà, statt’ zitt’! – s’infila mio fratello.
- 450 metri. – dice Massimo.
- E Marco, a gamba tesa: ma voi non siete di Posillipo? Posillipo è la schifezza delle colline!
- Ma che stai dicendo? – Insorgo.
- Scemo, la bellezza di Posillipo è nel mare! E mmo’ zitto e muto!
Poi cala il giusto silenzio su un argomento tanto sciocco. Io sono con la mente altrove, ormai da un bel po’, direi… È vero, ho sentito una fortissima attrazione a buttarmi giù dai Camaldoli, è stato bellissimo saltare e saltare, verso chissà dove, ho capito che è facilissimo fare il paracadutista della vita: occorre solo disporre di un precipizio. Il mio precipizio segreto è l’Oriente, l’Oriente lontano. Vallo a spiegare a questi qua – mi dico – che capiscono solo “America”, l’Ovest selvaggio…
Palazzo Corigliano è la sede del Dipartimento di Studi Asiatici dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Studio giapponese da autodidatta e finalmente ho trovato il luogo dove mezza Italia viene a studiare le lingue orientali. Io sono ancora al terzo anno di Istituto d’Arte ma quando posso, tra un filone senza rimorsi e uno sciopero provvidenziale, ci vado, per infilarmi in biblioteca o per parlare con gli studenti più anziani. Dopo il diploma di maturità studierò certamente all’Orientale.
Poi Massimo rompe il silenzio: - Comunque, parlando di colline…
- N’ata vota, mo’?
- E fatemi parlare! Voglio solo dire che l’altro giorno ho visitato i cantieri della nuova Metropolitana Collinare! Roba spaziale! Sarà vero che la civiltà moderna arriva tardi a Napoli, ma quando arriva è superiore al resto d’Italia, non credete?
- Beh, a volte sì! Speriamo di sì.
- La prima tratta sarà dai Colli Aminei a Piazza Vanvitelli. Ma si parla già di chiudere la linea ad anello, fino all’aeroporto, passando per il Frullone, Chiaiano e via elencando!
- Madonna, la fermata al Frullone potrebbero evitarla… Sai la fauna!
Io ci penso un po’ su e sento una specie di friccicore…
- A me invece interessa che il percorso continui al più presto dal lato opposto! Vi immaginate che bello ritrovarsi giù Napoli senza più prendere cento pullman e funicolari?
- Io da architetto ti dico che avrai voglia di aspettare. – Dice Massimo. – Lì i problemi tecnici sono innumerevoli. Secondo me fanno prima a completare la tratta all’aperto verso Piscinola. Così potremo andare all’aeroporto ogni volta che ci gira.
- Si però…
- Non fare il razzista. T’aggio capito.
Ora sono stato messo in orizzontale, legato come un salame, e sono stato scelto perché la mia faccia è dura come il diamante. Un gruppo di tecnici milanesi dà il via ed ecco che vengo lanciato nella roccia ad aprire il varco guida dal quale si avrà poi la galleria finale per far correre i treni metropolitani fin giù a Napoli centro.
Come spinto da un reattore, con gli occhi socchiusi e una sensazione di solletico al viso, ecco che a muso duro attraverso senza sosta il sottosuolo di Napoli: Piazza Quattro Giornate, Materdei, Dante... La mia faccia tosta apre un varco negli strati durissimi di roccia, sconquassando senza pietà scheletri di dinosauri, vasellame antico, archi romani, e disturbando una quantità impressionante di resti umani… che mai avrebbero immaginato.
Forse dovrò fare qualche altro passaggio per allargare il percorso ma per oggi ho finito e riemergo da un buco a Piazza Borsa; mi tolgo polvere e detriti di dosso, risalgo via Mezzocannone ed eccomi a Piazza San Domenico Maggiore, con la sua chiesa a forma di robot, abbagliata dal sole. Davanti a me, con le sue finestre bianche e il suo rosso di tonalità unica, Palazzo Corigliano.
Che ore sono? Che giorno è? Cosa importa. È sempre Primavera, è sempre lo stesso lungo giorno lontano da tutto, lontano da infanzia e vecchiaia, senza le ombre del passato e del futuro. Non c’è altro luogo dove passare le mie giornate: è sempre oggi ed è sempre ora, qui a Corigliano.
Alessandro Wm Mavilio
- Anni Novanta -
Palazzo Corigliano
Napoli
1993
WIP
Alessandro Wm Mavilio
- Anni Novanta -
Capodichino
Napoli
1996
Allora, il passaporto ce l’hai, i soldi ce li hai, biglietto: tutto a posto. Se ti chiedono, dì che sei figlio di dipendente, tu dici così: “tengo un biglietto ID”.
- Papà, che vuol dire ID?
- “Industry Discount”, e con questa so’ dieci - le volte che te l’ho detto.
Ci scambiamo un sorriso.
- Se non c’è posto in Economy è possibile che a Roma ti mettano in prima classe. Ce l’hai una cravatta a portata di mano? Senza cravatta non te lo danno il posto in prima classe.
- Sì, papà, lo so, lo so.
- Ma ce l’hai?
- Siine.
- E non dirmi “lo so”, dimmi “ce l’ho”. Senti, mo’ che arrivi in Giappone… Va be’, lo sai. Se ti riesce telefona, se non ti riesce, non telefonare. Anzi, telefona solo se hai problemi. Vedi tu.
- OK, vedo io.
- Quando ho controllato ieri, sul Napoli-Roma c’erano molti posti liberi. È probabile che ti mettano in coda, sul reattore, senza finestrino. Se invece non ci sono posti tu chiedi lo strapuntino. Per i voli brevi te lo danno, ma tu non dare fastidio, fatti piccolo-piccolo e non parlare mai a meno che non vieni interpellato. Sul Tokyo, ancora non si sa se ci sono posti.
- E se non ci sono posti?
- E se non ci sono posti, male che vada ti pigli un treno e te ne torni a Napoli. O se no, fa’ così: se ti riesce, telefona.
- E se non mi riesce?
- E se non ti riesce, non telefonare. Te lo devo dire io?
- No, no, era solo un “double check”.
- E sta bene. Poi a Tokyo c’è tua cugina Rosanna col marito tedesco.
- Sì, mio figlio a Parigi.
Ho volato mille volte, ma stavolta è diverso. Il Giappone è meta lontana e mitica per me. Questo sì che è un lentissimo, infinito, buttarsi in un precipizio.
Mi stupisce sempre come sia possibile distaccarsi da luoghi e persone solo perché il veicolo sul quale ci si deve imbarcare non ammetta ritardi, sentimentalismi, umanità. Cammino a passi pesanti sul pavimento di gomma nera dell’aerostazione di Capodichino. Tutti hanno un’aria assonnata e appesantita, le donne in divisa Alitalia del check-in hanno invece un che di supremo: loro sono qui ogni giorno, ben truccate e sempre femminili.
- ID, classe “York”? – mi chiede.
- Sì. ID, classe “Yankee”. – rispondo io per darmi un tono. – Sono un figlio di…
- York e Yankee sono la stessa cosa. – fa lei, con tono antipatico. – Sul Tokyo non ci sono problemi, ti assegno il posto da subito. Corridoio o finestrino?
- Finestrino, finestrino!
Un auto-snodato arancione ha portato noi passeggeri ai piedi del nostro aereo. Siamo tutti in fila per salire l’esile scaletta retrattile di alluminio, sul davanti. A metà percorso mi guardo intorno e assaporo l’ampiezza di questa zona speciale di Napoli. “Campo di Marte”, si chiamava una volta… Mi sembra assurdo che nel cuore di una città tanto fitta come è Napoli – dove tutto è stipatissimo – possa esistere un’area così immensa e… libera da ogni cosa. È però come essere in una conca: ovunque mi giri vedo un bordo, che sia fatto di case, di montagne, o dal lato del mare, lo stesso immenso Vesuvio.
Fa freddo su questa scaletta traballante. Tira un vento teso e alla mia destra ha appena toccato terra un piccolo turboelica. Sono quasi a bordo. Un assistente di volo saluta i pochi passeggeri ad uno a uno e li indirizza lentamente ai loro posti. Entrando, sulla sinistra, la porta della cabina di pilotaggio è aperta. I piloti splendono ai miei occhi tra carteggi e scintillii metallici. Dalla cabina fuoriesce distintamente la litania dell’ATIS, il bollettino meteo in inglese trasmesso via radio e tenuto a un volume insolitamente alto.
“Questa è l’informazione Delta per Napoli, delle ore 05 e 51 Zulu. Pista in uso: 24. Visibilità: 10 chilometri o più. Nuvole: poche a 2.500 piedi. Temperatura: 4 gradi Celsius. Punto di rugiada: 2 gradi Celsius. Pressione atmosferica: 1019 ettopascal. Vento in pista: da 200 gradi a 5 nodi. Livello di transizione: 90. Pericolo di Wind Shear sul finale 24. Riportare di aver recepito l’informazione Delta. - Questa è l’informazione Delta per Napoli, delle ore 05 e 51 Zulu…”
Mi hanno inaspettatamente dato un posto abbastanza in testa. Sono a bordo di questo Super 80. E quanti ne ho visti volare sulla mia, di testa, a Santiaculo, Torre Caracciolo, nel lucernario di Palazzo Corigliano. È lampante che abbiano da poco fatto le pulizie della cabina perché avverto il tipico odore di aspirapolvere, ma anche di giornali freschi, sigarette e profumo di donna.
Questo mix di odori è complementare a quello di terra, muffa e fondi di caffè che mi porto nelle narici dall’infanzia.
“Signore e signori, desideriamo richiamare la vostra attenzione su alcune dotazioni di sicurezza di questo aereo. Vi preghiamo di controllare l’ubicazione delle uscite di emergenza: localizzate quella più vicina a voi…”
Ci muoviamo. L’aereo lentamente percorre i raccordi che lo porteranno alla pista di decollo. Ogni volta che le sue ruote incontrano il minimo ostacolo, tutta la struttura risuona nella sua rigidità: da qualche parte mi sembra di sentire come dei campanellini, che altro non saranno che cucchiaini di metallo, stivati da qualche parte in un armadietto.
Dalla piazzola dell’aerostazione percorriamo a passo d’uomo il raccordo principale in direzione Nord-Est. So che il nostro naso ora punta verso le montagne di Benevento. Dal mio finestrino, sulla destra, vedo scorrere erba, asfalto, recinzioni e cartelli in codici incomprensibili ai più. Ora passiamo davanti all’area NATO dove è parcheggiato un colossale Galaxy C5. Adesso è apparsa la stazione dei Vigili del Fuoco, con le autobotti lucidissime parcheggiate col muso fuori. Ora siamo a ridosso della stazione RADAR, riconoscibile dai suoi scacchi bianchi e rossi. Una donna in divisa mimetica fa jogging sull’estremità del raccordo correndo quasi alla nostra stessa velocità. Corre con le cuffiette di un walkman. È certamente una militare americana.
Schiacciando il viso sull’oblò, vedo ancora l’aerostazione passeggeri in fondo a destra, deformata dalla plastica doppia e graffiata del finestrino. Sono certo che dietro quelle grandi lastre fumé c’è mio padre in attesa di vedere l’aereo decollare.
So anche che in linea d’aria, a poca distanza, in una nicchia di Poggioreale c’è mia madre, adagiata su un lato, proprio - e non casualmente - in direzione dell’aeroporto.
L’aereo frena leggermente emettendo un greve lamento, e affronta la stretta curva a gomito a sinistra in fondo al raccordo principale, per immettersi nella pista di decollo. Dal mio finestrino, ora, vedo la recinzione del perimetro aeroportuale, erba incolta, i paletti delle luci di approccio; sullo sfondo, le montagne innevate di Benevento, e in cielo, poco più in là di Pomigliano, i fari di un altro paio di aerei che oscillano nell’aria, in avvicinamento a questa stessa pista.
Davanti a me, posso solo immaginarlo, un muro di case, di vite umane e di tanta terra: la collina del Museo, e subito dietro quella del Rione Alto, e poi quella dei Camaldoli, con l’antenna RAI, temutissima dai piloti. Questo aggeggio lungo e pesante dovrà sollecitamente guadagnare Aria per sfuggire alle zampate della Terra.
I due motori in coda cominciano a sibilare e salire di regime, l’aereo sculetta come un gatto che ancora non sferra il suo attacco. Il freno ancora morde le ruote, la gomme mordono il macadam, a breve avverrà il rilascio.
Due piedi via dai pedali disinnescheranno un meccanismo, che rilascerà un liquido, che libererà un centinaio di tonnellate di metallo, carne e combustibile in una folle corsa orizzontale in direzione di Viale Maddalena. A quest’ora Viale Maddalena è percorsa a piedi, in motorino, auto e pullman da un esercito di studenti, garzoni, ragionieri, salumieri, mobilieri, donne delle pulizie, padri, mamme, zii e nonne che dai paesi poco fuori Napoli si riversano come un fluido verso Piazza Carlo III e Piazza Garibaldi, per occupare i loro posti nella vita di ogni giorno, come rivoli sottili di acqua che percorrono le giunture tra quelle enormi mattonelle che sono i quartieri.
Traballa tutto, l’aereo prende sempre più velocità come attratto da un enorme magnete davanti a sé, e sembra zigzagare sulla pista, forse per correggere gli schiaffi del vento. Il muso dell’aereo si solleva, io mi sento sollevato: mi volto indietro e la coda è ancora a terra, seduta, che rotola. È sempre davvero come essere su una giostra, come guardare nella tromba di un ascensore illuminata a giorno, è un attimo di cui nessuno parla mai. La rugosità della pista diventa la rugosità dell’aria, è il Portento della Portanza! Avverto chiaramente come il profilo delle ali, bombato sul davanti e affilato sul di dietro, rompendo milioni di molecole di aria, stia fisicamente stracciando la trama del “perennemente invisibile”, e per di più facendolo dal suo lato meno tagliente!
Devo ricordarmi questa cosa! Tornerà utile nella vita: quelli che sembrano miracoli avvengono attraverso il coraggio di azioni contro-intuitive.
A una data velocità e col giusto profilo, l’aria di sempre diventa un mezzo concreto e affidabile, scrivibile e intarsiabile, capace di sostenere l’impensabile.
In pochi secondi siamo in volo, e tutto si allontana e sembra rallentare e fermarsi. Si ferma l’orologio interiore del cuore. Deglutisco. Sospeso è il corpo, sospeso è tutto: paure, affetti, appuntamenti. Nessuno può nulla contro il rapimento dell’Aria. Penso che in questi casi, la vera utilità di avere con sé un passaporto è quella di ricordare a sé stessi il proprio nome, la propria provenienza, perché ogni volta che prendo il volo tutti i miei attributi e aggettivi sembrano restare a terra come ombre senza più padrone… Se la persona seduta di fianco a me mi chiedesse il nome, potrei dirne uno qualunque e credere davvero di essere chi non sono… E non sarebbe la stessa cosa in treno…
Sùbito, una leggera virata a sinistra mentre il carrello rientra con due tonfi nel ventre dell’aereo. Eccola, Napoli dall’alto! Cose mai viste!
Il sole del mattino proietta fasci di luce dorata su tutti noi, entrando e uscendo trasversalmente dagli oblò, disegnando ombre curiose, mentre sbandiamo verso Sud. La cabina passeggeri è ripidamente inclinata, sbilenca, e zeppa di pulviscolo scintillante in sospensione. Volare è una pazzia. Farlo in gruppo, con altri sconosciuti, richiede il massimo silenzio, impone una sorta di omertà.
Dalla porta sempre aperta della cabina di pilotaggio, nel silenzio di tutti i passeggeri, mi giunge la voce fiera di un pilota:
- Radar, buongiorno! È la Uno Due Otto Quattro che passa i Duemila e sale per Centottanta in direzione Sorrento.
E dalla radio gracchiante, tenuta ancora a volume molto alto, gli risponde un controllore di volo, con la voce piatta, da fine turno di notte:
- ‘Talia Uno Due Otto Quattro, buongiorno. Come sale?
- Salgo bene, salgo!
- “Salgo bene”? A Teano diretti, nessuna restrizione.
- Diretti a Teano, Dodici-Ottantaquattro.
E continua a stringersi la nostra virata a spirale a sinistra, per puntare a Sud e guadagnare poi il Sud-Est, l’Est, il Nord-Est, il Nord e infine il Nord-Ovest che ci porterà a Roma. Se non ci fossero i Camaldoli con quell’antenna Rai non avremmo fatto tutto questo giro. E invece c’è l’antenna, e ci sono i Camaldoli.
E ci sono io.
Lancio uno sguardo verso la cabina di pilotaggio e vedo solo cielo nei finestrini dei piloti. Poi una mano tira una tendina ed è come se si fosse chiuso un sipario. L’aereo continua ad accelerare, lentamente e progressivamente, aumenta il sibilo dell’aria che scorre sul suo involucro: è evidente che questa creatura stia cercando e raggiungendo la sua naturale dimensione espressiva.
Siamo già alti e dal finestrino riconosco chiaramente il Gargano e addirittura le coste della Jugoslavia. Della ex-Jugoslavia.
La cabina si riempie di fumo di sigaretta e aroma di caffè.
Alessandro Wm Mavilio
- Anni Novanta -
Shirogane
Tokyo
1999
Alessandro Wm Mavilio
- Anni Novanta -
Alicudi
Isole Eolie
1990
Nell’estate del 1990 mio fratello e io avevamo lavorato in coppia consegnando dentiere e apparecchi dentali per tutta la città. Io avevo girato con buste di plastica della spesa piene di denti finti, mandibole di gesso, qualche attrezzo… Una volta fui mandato a via Toledo a comprare urgentemente dieci litri di acido fluoridrico. Il commerciante mi chiese se desideravo che un garzone mi portasse il boccione fino al furgone. Io risposi che ero a piedi e sarei risalito con la funicolare. Mi guardò con pena; silenzioso e irritato mi mise questo pesantissimo boccione in braccio e mi disse: - Guaglio’, se ti dovesse cadere… scappa il più lontano possibile. Hai capito? Non restare a guardare quello che succede. Hai inteso? - E così risalii al Vomero con il mio carico speciale ma con un unico vero pensiero. La vacanza.
Mio fratello aveva organizzato una vacanza con i suoi amici e mi aveva chiesto se avessi voluto andare anche io. Certo che sì! Saremmo andati alle isole Eolie, sarebbe stata una bellissima vacanza di mare. Dovevamo pur premiarci: mezza Napoli in autunno avrebbe masticato grazie a noi.
- Sai perché si chiamano Eolie? – mi chiese mio fratello.
- No… - risposi.
- “Eolo”. Non ti dice niente?
- Ah, sì!
Nella Napoli deserta di quegli anni, quando “vacanza” voleva davvero significare il vuoto delle strade andai a piazza Municipio per comprare il mio biglietto della nave e poi alla Duchesca per comprare un sacco a pelo; quest’ultimo pagato solo duemila lire, un affare. Saremmo partiti dopo qualche giorno, non ero nella pelle. Lui si recò per pochi giorni a casa di altri amici per un’ulteriore breve vacanza di mare più locale. Restammo d’accordo che ci saremmo trovati al porto di Napoli per la partenza. Anche i suoi amici sarebbero stati già lì e tutti saremmo partiti. “Non portare troppa roba”, mi disse; “perché non usi lo zaino di quando papà era militare? Hai comprato il sacco a pelo?”. Era il mio primo viaggio in assoluto, senza la famiglia. Tutto stavolta era affidato a noi soli, il mangiare, il dormire, la sicurezza. Era la prima estate dopo la morte di nostra madre e tutto nella vita aveva assunto un’aria di grigia insufficienza. Io vivevo nella inespressa speranza di qualcosa.
La sera della partenza ero al porto. Riconobbi il gruppo di amici che si era riunito e mi unii a loro. Erano tutti molto più grandi di me. Fecero per imbarcarsi ma mio fratello ancora non si vedeva. Quando lo feci notare mi dissero che forse era già sulla nave e che comunque ci voleva ancora un po’ prima della partenza, ci avrebbe raggiunti a bordo. Esplorammo un po’ il ponte della nave, lì avremmo dormito. I più avvezzi avevano già occupato le nicchie più riparate. Io non sapevo niente di gas di scarico e dell’insistenza del vento. La nave salpò ma di mio fratello nessuna traccia.
Partire in nave da Napoli è un’esperienza che richiede polso. Dalla poppa, la vista del porto, poi del Vomero e della Certosa di San Martino, poi del golfo intero, di tutto quel presepe che all’imbrunire rimpicciolisce ineluttabilmente sembrò condurmi a un passo dalla pazzia, era come uno strappo lentissimo e doloroso, struggente bellezza di indicibile sofferenza. Ero anche furioso con mio fratello e impaurito da quel primo imponente distacco dei miei primi quindici anni. Gli amici mi tranquillizzarono, forse ci avrebbe raggiunti qualche giorno dopo. Napoli era ormai scomparsa, gli sguardi volgevano a prua. Seduti in cerchio, facemmo tutti conoscenza. Gianni e Rosa (fratelli), Annalisa (che stava con Gianni), Grazia con un’altra amica, un altro Gianni e io. Quando chiesi come avevano conosciuto Stefano, mio fratello, mi risposero: - Chi?
Solo uno di loro lo conosceva. Era l’altro Gianni, Giovambattista, un ragazzo agitato, esplosivo e molto intelligente, si diceva il discendente del Monsignor Giovanni Battista Alfano, il famoso vulcanologo. Mi colpiva di Gianni la sua evidente classe, e tuttavia il divertimento di vivere Napoli e la napoletanità nel modo tipico degli stranieri che la visitano a lungo. Parlava molto bene il napoletano ma era ovvio che fosse per lui come una seconda lingua, studiata con attenzione e praticata con genio. Gianni era un’esponente storico della gioventù alternativa della città, ridotto male nel vestiario ma decisamente di buona famiglia, intellettuale, artistoide e libero. Per tirarmi un po’ su disse, ritmicamente:
- Va bbuo’, mo’ nun ce penza’ cchiù. Stamm’ ‘ccà! Appicciate ‘na sigaretta.
- Ma io non fumo…
Dopo alcune ore tutti aprirono i sacchi a pelo con evidente scioltezza. Feci lo stesso ma il mio sacco a pelo si strappò completamente non appena vi infilai le gambe. Eccolo, l’affare alla Duchesca, pensai… Gianni rise sonoramente e disse a tutti che mi avevano venduto ‘na felinia, una ragnatela. Lo usai comunque, come fosse una mappata di stracci sintetici. Sempre meglio di niente.
All’aurora eravamo sotto Stromboli. La fornace nella notte. Che spettacolo…
A Panarea venne una barca a remi sotto bordo a prendere i pochi turisti destinati a lei.
Poi attraccammo a Filicudi e Gianni mi disse, gravemente: - È l’isola dei lebbrosi.
E infine comparve Alicudi. Lo scoglio brullo. Per quel po’ che la nave l’aveva lambita, l’isola non aveva presentato zone d’ombra e il sole era già alto. Il nostro gruppo sbarcò. Fu anche sbarcata una vecchia automobile, quasi d’epoca, nell’ilarità dei marittimi che continuavano a dire al proprietario che l’isola non aveva strade ma che… contento lui. La prima notte dormimmo tutti insieme a due passi dal molo, in una stanza affittata non molto diversa da una stalla. Mi svegliai prima di tutti perché sentii urlare. Spiai tra le assi di legno della porta e vidi aldilà della mulattiera una giovane isolana che veniva frustata dentro un pollaio. Non potevo credere che accadesse a un passo da me. Il padrone le urlava insistentemente “puttana ‘mmaculata”. Ciò avveniva a un metro da noi, ed ebbi la netta sensazione che quella donne stesse subendo una punizione proprio a causa nostra. E infatti fummo subito messi fuori casa: niente sconcerie, ci fu detto. Forse il padrone era disturbato da un gruppo promiscuo di giovani che dormissero tutti insieme. Altre sistemazioni non ce n’erano sull’isola. Si era pensato di occupare la casa vuota di un tedesco, ma era molto in cima all’isola e troppo lontana dal mare. Il gruppo si spostò definitivamente su una spiaggia un po’ nascosta. Ci saremmo accampati lì e sarebbe cominciata l’avventura.
Alicudi ci presentò presto il conto, salatissimo in tutti i sensi. Non c’era ombra, non c’era acqua potabile né acqua corrente, non c’era elettricità, non c’era gas. La civiltà era solo una promessa, smembrata e rimembrata nella mente. Alle undici del mattino apriva per poco tempo il minuscolo emporio di Ettore, giù al molo, dove si poteva comprare qualcosa.
Alicuri è ovunque sterile ed alpestre,
e non ha di circuito più di 7 miglia.
Vi nasce in gran copia l'erica.
Mariano Scasso, "Storia generale di Sicilia", 1788.
Esaurite le prime scorte di cibo degli zaini, mangiavamo e ci muovevamo il meno possibile, specialmente durante il giorno. Al sale sulla pelle si aggiungeva il sale di successive irresistibili immersioni. Si andava al bagno dove si poteva. Si parlava pochissimo perché ci si comprendeva pochissimo. Nel giro di pochi giorni eravamo tutti ridotti ad automi biologici: corpi interessati esclusivamente dalla loro lenta dissoluzione. Ma dopo poco avremmo lasciato l’isola per provarne un’altra. Finché il mare non si ingrossò e le navi, già rare, smisero di frequentare Alicudi. Fummo costretti a un’altra settimana di vita selvaggia, una settimana che sembrò infinita. Anche l’emporio chiuse perché non riceveva più i rifornimenti da Lipari. Non pensavo più a mio fratello, ero invece contento che si stesse risparmiando questa incomprensibile esperienza. Io alla fine me la stavo cavando.
Gianni il fratello di Rosa, ragazzo bellissimo e fine, fotografo provetto che spesso parlava della sua vita a Londra, finì di leggere un libro e mi chiese se per caso non andasse anche a me di leggerlo. Lo accettai per cortesia, ero intontito e non avevo molta voglia di leggere. Mi sentivo già in una dimensione irreale, quanto oltre potevamo andare fuori di corpo e di testa? Ma lo accettai e lo tenni per un secondo momento. Poi un giorno cominciai a leggerlo e ne fui rapito. Era Confessioni di una maschera, di Yukio Mishima. Mai lettura fu “travaso più endovenoso ed effettivo” di quella. La distorsione causata da Alicudi era speculare alla distorsione che mi offriva il libro: parole da una differente epoca, una differente civiltà, una differente sessualità. Ancora una volta proprio il Giappone mi aveva raggiunto. Qualcosa si risvegliò in me, avrei voluto dire a tutti che a Napoli avevo un libro di giapponese e che in corpo avevo un mare di sillabe, che sapevo perfino dire qualcosa. Ma Alicudi aveva accuratamente sfilato via quella dimensione aggiuntiva della cultura come fosse una veste troppo vezzosa: qui i Paesi del mondo erano gli elementi. Parlavano, urlavano, picchiavano e questa lingua si parlava col corpo seminudo.
Prigionieri di Alicudi cominciammo tutti una dieta a base di capperi e fichi d’india. Eravamo tutti pieni di spine e quelle più invisibili e dolorose si sopportavano, sperando che non facessero infezione. Dopo il pasto, a turno e con la pinzetta di una delle ragazze, ci si toglieva le spine da lingua e gengive. E l’uno lo faceva all’altro. Resisteva una civiltà minima di mutuo soccorso che si occupava di un unico, anomalo, anello della catena: il dolore dell’alimentazione. Quanto dovevamo essere buffi e dolci se guardati dall’alto. Scimmiette.
La notte ad Alicudi era il nostro giorno. Il fresco ci rianimava e per certi versi la notte era luminosa quanto il giorno. Isolati su uno scoglio del basso Tirreno senza elettricità, il cielo di notte era chiaro e profondo, come non lo avrei mai più visto in vita mia. Era più il bianco delle stelle che il nero dell’abisso. La Via Lattea esisteva davvero ed era abbagliante e colorata… Perfino i percorsi sulle mulattiere erano agilissimi: il buio era una chiara certezza; di notte il pianeta stesso mi sembrava un’isola nel cosmo. Non era forse un mare quello che era in cielo? Poi d’improvviso, tutti stesi sulla spiaggia, una ragazza del gruppo ci chiede se anche noi non vedessimo qualcosa di strano in cielo. E sì. A ben vedere, prima uno e poi altri, il cosmo profondo era pieno di oggetti animati, non pulviscolo, non insetti, non aerei, non satelliti, non meteore… Uno, due, molti oggetti lontanissimi che navigavano la volta del cielo… Si spostavano fluidi e filanti ma poi si fermavano. Dopo una pausa tremolante sfilavano ancora via verso un diverso punto dello spazio, per poi ancora tremolare e magari scomparire dietro un orizzonte. Dopo qualche minuto di teorie, calò un rispettoso silenzio e non se ne parlò più, ogni notte avremmo visto quegli oggetti accettandoli come tutto il resto sconosciuto del cielo.
Una notte feci una passeggiata al molo, come per invocare la nave o per calmare il mare. La vecchia auto sbarcata sul molo era totalmente arrugginita nel giro di una decina di giorni. Il padrone le aveva anche lasciato i finestrini un po’ aperti come si usa in estate. La mareggiata e la salsedine se l’erano mangiata dentro e fuori… Alla luce della luna, fu una visione spettrale. Poi pensai al libro di Mishima che stavo leggendo: Giovanna d’Arco, San Sebastiano, l’amore per Sonoko… E ancora, agli oggetti volanti, ai bagliori verdastri del cimitero, ai mille gradoni di Alicudi che avevo salito e disceso. Poi ancora la visione, dalla poppa del traghetto, di Napoli che lentamente scivola via, la confusione della mia famiglia, la cravatta nera di mio padre. Mi sentii un buco infinito in petto.
Tornai alla spiaggia e mi accucciai al mio posto. Mi sentii toccare con insistente dolcezza. Doveva essere Grazia, una ragazza di ventisei anni che mi aveva parlato poco ma che mi era sempre sembrata molto sorridente. In genere dormiva alle mie spalle. Che cosa voleva da un bambino come me? Mi voltai e invece era uno dei due Gianni. Lo mandai a quel paese, e lui a sua volta mi disse: - Ma che campi a fare? - Ottima domanda, pensai. Chiusi gli occhi per riposare un po’.
Quando li riaprii era ancora notte e avevo ancora il cielo stellato sopra di me. Stavolta il silenzio aveva una qualità diversa. Non c’era brezza e non c’era la voce delle onde, eppure il mare era a due passi, immobile, come congelato da un incantesimo. Ero sulla riva di una laguna circondato da palme basse, e più in lontananza da una vegetazione rigogliosissima. Agli occhi era tutto estremamente nitido, come se l’aria fosse stata risucchiata via dal mondo. Cercai di fare mente locale, era molto tardi nella notte. Poi mi toccai il petto d’istinto, nessun buco nero. Provavo una grandissima pace, un sollievo senza fine. Espirai profondamente, come per immettere un po’ d’aria in quel paesaggio così fermo. Poche ore prima avevo preso un passaggio in macchina da due ragazze, sulla strada costiera numero 6, da Yomitan-son. Erano passati diciotto anni dai tempi di Alicudi e adesso ero capitato in un villaggio dell’isola di Okinawa. Quanto era lontana Alicudi? Ci ero veramente stato? Cosa mi aveva portato fin qui? Mi sembrò di aver saltato da un’isola all’altra... Quasi non avevo più coscienza di tutto ciò che era accaduto tra le due isole, del mare di ricordi. Forse gli UFO di Alicudi erano proprio le immagini di persone che vivevano le loro vite, attratte da galassie irresistibili e sempre diverse. Mi voltai, una delle ragazze della macchina era stesa dietro di me, alle mie spalle. La guardai per bene, ed era evidente che aspettasse che le dicessi qualcosa. La tenni sotto agli occhi a lungo e poi, in italiano, per lei incomprensibile, dissi a mezza voce: la bella sconosciuta. Lei alzò spalle e sopracciglia.
- Come hai detto che si chiama questo posto? – le chiesi. - È bellissimo…
- Onna-son.
- Ma dài, “il villaggio delle donne”? Dici sul serio?
- No, si scrive diversamente. – e segnando nell’aria i tratti degli ideogrammi disse: - “On” è quello di “debito di gratitudine” e “Na” significa… risolvere?
Alessandro Wm Mavilio
Orientalista, scrittore e ricercatore indipendente, Alessandro Mavilio ha insegnato all'Università Industriale di Kyoto. Attualmente vive in Hokkaido.
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